
La prassi sinodale recente ci ha abbastanza abituato a processi avviati che avanzano a passo molto lento: speranze e insofferenze procedono di pari passo, anche se le seconde sono di opposta matrice, alcune di chi si scandalizza della innovazione, altre di chi trova insopportabilmente lento il passo. Un caso è quello che riguarda la posizione nella comunità cattolica delle coppie che vivono un secondo matrimonio dopo la fine del primo: c’è una parola più semplice per dirlo? Si, i divorziati risposati, ma mi sembra meno rispettoso.
Non c’è dubbio infatti che i matrimoni “secondi” siano molti. In certo senso vi si potrebbero contare anche quelli che vengono dopo una prima unione solo civile o anche dopo la rottura di una lunga convivenza. E magari anche dopo l’accertamento di nullità da parte del tribunale ecclesiastico, che decreta che, mancando le condizioni di base, il matrimonio in senso proprio non esisteva: ma la vita in comune sì. La condizione di ferita e poi di rinascita nel secondo rapporto è di fatto comune, perché il sacramento vive nelle ore nei giorni negli affetti e nei dolori di tutte e tutti. Fra le coppie ricostituite ve ne sono diverse che soffrono del fatto di essere escluse – di fatto – dalle parrocchie o considerate di serie B, ad esempio, senza sacramenti. Altre coppie non frequentano e non sembrano troppo interessate, ma alla fine il senso di esclusione pesa su tutti, graffia la pelle anche quando sembra non riguardare direttamente. Nasce così la domanda: possibile che si possano riconciliare assassini e delinquenti, gente di guerra e di finanza, sia pure a debite, anche se spesso disattese, condizioni, e si debba invece mantenere una sorta di s/comunica, nel senso di impossibilità di partecipare alla mensa eucaristica, a persone che dopo un fallimento, magari anche un abbandono subìto, vogliono semplicemente amare ancora?
Ecco che potrebbero affacciarsi due fantasmi, ma li allontaniamo subito: si è sempre fatto così / prendiamo sul serio le parole della Scrittura. Quanto alla Scrittura – siamo meno scrupolosi su altro, bisogna ammetterlo, ad esempio sui beni e sulla violenza - si deve osservare che i passi sul divorzio sono inseriti in testi che si oppongono al facile ripudio delle donne (Marco 10,1-12). Fra il resto nella versione di Matteo (19,9) ci sono pure le cosiddette “eccezioni” – eccetto il caso di scorrettezza, che viene tradotta in italiano “unione illegittima”, spostando abbastanza l’ottica del testo - che nelle chiese orientali supportano la prassi di riammissione dei divorziati. Sì perché, se osserviamo la storia, dobbiamo dire che è molto più varia di quanto spesso si contrabbanda: fino al terzo secolo non esisteva un segno riconoscibile – un sacramento diciamo oggi – per riconciliare il peccato grave dei battezzati. Quando si introduce il sacramento della penitenza, non senza un grande dibattito, lasciandosi ferire dalla ferita delle persone che domandavano di poter tornare nella comunità, i problemi pubblici per i quali era previsto un percorso di riconciliazione erano: 1) aver sacrificato agli dei pagani (apostasia), 2) l’omicidio esteso fino alle stragi e 3) le seconde nozze, che in alcuni documenti sono chiamate adulterio, citando il testo evangelico. Le chiese orientali e ortodosse – fino al 1054 siamo comunque l’unica chiesa – hanno continuato a fare così: un secondo matrimonio, sia di vedovi che di divorziati, ha un tono anche di richiesta di perdono, come a dire che non si affronta con leggerezza. Ma è un vero matrimonio. La “scorrettezza”, di cui parla il Vangelo viene ad esempio interpretata come il danno inflitto al «coniuge innocente», esteso per misericordia agli altri.
E nella Chiesa cattolica? Al Sinodo 2015/16 sulla famiglia è stata discussa questa prassi antica ed ecumenica, tuttora in uso fra gli Ortodossi. E’ stata anche messa in relazione ad altre riflessioni, quali quelle legate al primato della coscienza, al discernimento, alla complessità delle situazioni: il dibattito confluisce nel capitolo viii di Amoris Laetitia, l’ Esortazione apostolica postsinodale di papa Francesco, che andrebbe meglio conosciuto e meditato. Fra il resto, così dice: «Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino».
Il documento fa inoltre delicatamente capire che l’opzione – in passato proposta – di vivere come fratello e sorella non è praticabile. Aggiunge che i divorziati risposati «non sono scomunicati» (in senso radicale), devono anzi essere più integrati purché non ci sia «scandalo». Senza scandalo di chi? Tante buone persone si scandalizzano infatti della esclusione, propria e/o degli amici risposati. Ma qua non ci si riferisce a loro, ma a chi è contrario alla loro riconciliazione. Che significa dunque? Che devono andare in una parrocchia lontana da dove abitano? Sappiamo che purtroppo viene anche proposto questo. Ed ecco che, dicendo che non è il tempo di avere una norma comune che disciplini la situazione, si rimanda al discernimento personale e pastorale, aggiungendo, ma in una piccola nota a piè di pagina (nota 336), che questo vale anche per i sacramenti.
Bene il discernimento e la coscienza: è però il tempo che la questione esca dalle “note” e venga alla luce del sole. Un percorso pubblico riconosciuto e riconoscibile non elimina la complessità, ma permette che sia vissuta nella giustizia, alla luce del sole. Non a piè di pagina, ma al centro.
di Cristina Simonelli
Teologa, docente di Storia della chiesa antica, Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, Milano