· Città del Vaticano ·

Bartolo Longo (1841-1926)

Apostolo del Rosario
e fondatore della cittadella mariana di Pompei

 Apostolo del Rosario e fondatore  della cittadella mariana di  Pompei  QUO-046
25 febbraio 2025

di Angelo Scelzo

Apostolo del Rosario e fondatore della “Nuova Pompei”, la città di Maria che 150 anni fa, a partire dal Santuario, ha fatto ricominciare daccapo, negli stessi luoghi, la straordinaria storia, di altra epoca, della città sepolta, nel 79 dopo Cristo, dalla lava di eruzione del Vesuvio: sono questi i tratti essenziali della ricca e complessa biografia del beato Bartolo Longo, del quale Papa Francesco ha approvato i voti favorevoli della sessione ordinaria di cardinali e vescovi per la canonizzazione. Quarantacinque anni fa, il 26 ottobre del 1980, il rito della beatificazione, presieduto in piazza San Pietro da Giovanni Paolo ii.

Per proclamare santo l’avvocato di Latiano, non è stata necessaria l’approvazione di un secondo miracolo. Numerosissime erano state le segnalazioni nello spazio di quasi mezzo secolo. Il Papa, come in altre occasioni, ha concesso la deroga all’obbligo canonico. Più di tutte, proprio questa circostanza, pone l’accento sulla singolarità di un santo dalla fede inquieta e tormentata negli anni della gioventù più matura. C’è stato un tempo ma anche un luogo per una conversione piena e definitiva. A Valle di Pompei, una terra desolata e preda della miseria, abitata, alla fine dell’Ottocento, da contadini sfruttati a angariati dalle scorribande di banditi e malviventi, il giovane Bartolo Longo arrivò per caso, inviato a riscuotere improbabili appannaggi per conto della contessa Marianna Farnararo de Fusco, erede di proprietà terriere lasciate del marito, morto prematuramente. La contessa diventò poi sua moglie e per l’estrema condivisione del grande impegno è considerata cofondatrice della “città mariana”.

Ritornato quasi a mani vuote dall’incarico professionale, Longo mise a frutto quell’incontro in tutt’altro modo, cambiando in realtà non solo la propria ma anche la vita di un territorio da lui stesso descritto a fosche tinte: «Niuno attraversava questa Valle senza paura, ed il viandante da lontano la guardava come luogo da temere e da fuggire». A riprova della pessima fama del luogo, descritto negli Annali del Regno di Napoli come luogo pericolosissimo per infami ladroni, alla prima presa di contatto, il giovane esattore fu scortato da due coloni, armati di fucile. E presto si rese conto di come poter organizzare la difesa: «Ricordo, dunque, il primo dialogo che ebbi con quei fittaioli, divenuti in quel primo giorno mia salvaguardia». Se non potevano pagare, quei contadini potevano almeno coprirgli le spalle.

Già era tanto, perché quell’incontro riservava un secondo tempo di tutt’altra natura.

Era il momento della svolta per l’avvocato e le terre intorno. Dal racconto lasciato dal protagonista c’è anche una data: «un giorno, correva l’ottobre del 1872, la procella dell’animo mi bruciava il cuore più di ogni altra volta, e m’infondeva una tristezza cupa e poco men che disperata». Non sapeva che fare né dove andare, preda di uno scoramento profondo. «E così andando, pervenni al luogo più selvaggio di queste contrade, che i contadini chiamano Arpaja, quasi abitacolo delle arpie».

Non poteva ancora saperlo, ma impaurito e confuso, Bartolo Longo era giunto al crocevia della propria esistenza. «Tutto era avvolto in quiete profonda. Volsi gli occhi in giro nessun’ombra di anima viva. Allora mi arrestai di botto. Sentivami scoppiare il cuore. In cotanta tenebria di animo una voce amica pareva mi sussurrasse all’orecchio quelle parole che io stesso avevo letto e che di frequente ripetevami il santo amico dell’anima mia, ora defunto: Se cerchi salvezza, propaga il Rosario. È promessa di Maria, Chi propaga il Rosario è salvo!».

Era in quella voce l’attimo decisivo, quello dell’illuminazione interiore, della scintilla come roveto ardente.

Cambiò tutto da quel momento in poi. E, come ha scritto l’arcivescovo prelato Tommaso Caputo nella sua lettera pastorale per i 150 dall’arrivo del fondatore, «Valle di Pompei e Bartolo Longo erano fatti per incontrarsi. Entrambi andavano in cerca di una scintilla che s’accendesse. Entrambi avevano vita da dare, e tanto intensa da non riuscire a tenerla per sé».

Quando fu inviato a Valle di Pompei, Bartolo Longo era un giovane che aveva appena completato gli studi all’università di Napoli, capitale non più del Regno borbonico, ma di un’Italia che viveva pienamente le tensioni di un’unità difficile e contrastata. L’esperienza della grande città, dopo l’adolescenza e gli studi nel Salento, aveva messo a dura prova anche la naturale educazione religiosa ricevuta in famiglia, e la fede aveva cominciato a vacillare a confronto con gli ambienti intellettuali positivisti, intrisi di laicismo e dichiaratamente ostili alla chiesa. Aveva pagato dazio perfino con l’adesione a fenomeni di spiritismo. Sbandate o poco più, superate con l’aiuto di sapienti direttori spirituali, primo fra tutti il padre domenicano Alberto Radente, indicato come l’artefice di una vera e propria conversione.

Come osserva ancora l’arcivescovo Caputo, «di fronte a un panorama di crisi e alle prese con le sue stesse difficoltà, Bartolo Longo mise da parte la tentazione di lasciarsi andare a quella che Papa Francesco, commentando l’atteggiamento di chi si trova a tu per tu con situazioni di disagio, identifica come “l’autopsia del cadavere”».

La scintilla di via Arpaia fu capace di innescare un “nuovo inizio”.

E nel segno di una sfida; lungimirante, e allo stesso tempo umile e coraggiosa nel senso di una trasformazione che non toccava solo la chiesa, ma la società del tempo. Il Rosario, la Confraternita, il tempio mariano diventavano le pietre di costruzione di una comunità civile chiamata a vivere non all’ombra di esse, bensì a esprimere la pienezza del proprio ruolo.

L’opera del fondatore si sviluppa come un processo dinamico che matura e si rafforza a mano a mano che si rendono presenti le nuove occasioni di impegno. Non si tratta, con tutta evidenza, di un impegno “una volta per tutte”. Bartolo Longo non ha solo posto le premesse, ma ha fatto in modo che crescessero e si concretizzassero secondo una progressione equilibrata e armonica.

Spuntava e s’innalzava il campanile, e cresceva parallelamente sul territorio, la rete dei servizi che identificano una città: le strade, la ferrovia, l’ufficio postale e tutto quanto era in grado di determinare il ritmo e il carattere di una vita quotidiana attiva e a misura di una comunità finalmente consapevole della sua nuova dimensione sociale.

Era facile capire, già nel pieno di quel processo, come si trattasse di qualcosa di inedito anche nell’ambito del forte impegno sul versante sociale dei tanti personaggi di primo piano della Chiesa tra metà e fine Ottocento. Bartolo Longo poteva contare sul confronto naturale e aperto che si svolgeva intorno a una schiera di santi e beati — padre Ludovico da Casoria, il medico-santo Giuseppe Moscati, madre Caterina Volpicella — per i quali era primaria la cura dei poveri e degli ultimi della fila. Il sostegno materiale era certo necessario, ma soprattutto in funzione di una dignità da restituire o ritrovare. Le misere condizioni di vita e la povertà diffusa erano barriere invalicabili contro ogni forma di progresso. Proprio il napoletano e la Campania si presentavano come le punte avanzate dell’intero Mezzogiorno italiano, in cui il fenomeno del cattolicesimo sociale aveva orientato e guidato la prima fase di sviluppo. La schiera di “apostoli del sociale”, tutti poi assurti alla gloria degli altari, era vasta e già circondata da una fama che conosceva pochi confini. Nomi e volti diventati presto familiari non solo ai devoti, ma a una comunità che viveva sulla propria pelle, e spesso in modo drammatico, le gravi carenze di uno Stato che mostrava di avere ben scarsa cura dei propri cittadini, lasciati in balìa della povertà più estrema e senza alcuna forma di una qualche assistenza. Si apriva alla Chiesa un vastissimo campo di assistenza. Ma si faceva strada, allo stesso tempo, la consapevolezza che non potesse bastare la formula di una sorta di elemosina sociale — qualche pasto caldo, la distribuzione di vestiario, spiccioli al capofamiglia, per mettere la coscienza in pace.

Ecco allora l’imponente corona di opere intorno a Pompei, a cominciare dall’Ospizio per i figli e le figlie dei carcerati, uno “schiaffo” ideologico alla scienza del tempo, e al Lombroso, che postulava l’ereditarietà dei caratteri di violenza. Un’innovativa pedagogia educativa era al centro, poi, di tutte le altre opere, sempre a favore dell’infanzia, affidate alla gestione delle suore domenicane “Figlie del Santo Rosario di Pompei”, una congregazione fondata dallo stesso Bartolo Longo. Centri oratoriani e di accoglienza oggi ancora tutti in piedi e, anzi, aggiornati e incrementati, sotto forma di case-famiglia, dalla chiesa di Pompei.

Rosario e opere di carità sono più che mai i tratti distintivi della biografia del fondatore, ma anche quelli della storia di Pompei. Come si rinnovano le opere, anche la preghiera del Rosario, ha una sua data storica che riguarda direttamente Pompei. Davanti al quadro della Beata Vergine del Rosario, sul sagrato di piazza San Pietro, san Giovanni Paolo ii, il 16 ottobre del 2002, proclamò la Lettera Apostolica “Rosarium Virginis Mariae”, un documento che ha rilanciato l’antica e sempre nuova preghiera, vera radice spirituale del Santuario di Pompei. Dalla Loggia della Basilica l’attesa è ora per l’arazzo della santità del suo grande apostolo.