
Dal nostro inviato
Salvatore Cernuzio
Sul volo di ritorno Beirut-Roma, quando la distesa di case, negozi e grattacieli e l’acqua del Mediterraneo si fondono in un’unica macchia grigio-azzurra, il cardinale Michael Czerny si ferma a riflettere sulla missione appena conclusa in Libano. Cinque giorni, da mercoledì 19 a domenica 23 febbraio, durante i quali il prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale (Dssui) ha visitato Beirut, Tripoli, Tiro e il villaggio di Alma al-Shaab — tra quelli del sud maggiormente colpiti dai bombardamenti israeliani — per portare la vicinanza e il sostegno del Papa a vescovi e patriarchi e soprattutto alla popolazione del Paese dei Cedri. Una popolazione messa duramente alla prova dalla crisi economica, dalle frammentazioni sociali e religiose e dalle conseguenze della guerra di Israele contro Hezbollah che se da una parte, come affermano i libanesi, ha «smosso» equilibri e architetture di potere interne portando alla elezione del nuovo presidente, dall’altra ha aggravato la questione profughi e la povertà già dilagante.
«Tanti problemi — osserva il porporato gesuita con i media vaticani —: è impressionante la grandezza e la larghezza dei problemi, uno dopo l’altro, è veramente difficile... Già l’idea di un Paese praticamente senza governo per tre anni è inimmaginabile». Tuttavia non è un sentimento di pesantezza, bensì di speranza e incoraggiamento quello che porta a Roma il cardinale Czerny, dicendosi sì impressionato dai tanti problemi del Libano, ma ancora di più dalla «risposta» della gente, delle Chiese, delle diverse organizzazioni umanitarie. Tutte realtà che il prefetto del Dssui ha incontrato e osservato da vicino nei giorni di viaggio.
«Si vede che ci sono risposte — afferma —, la gente non si sente vinta, non è scoraggiata, ma fa tutto quello che può fare; e questa voglia di lavorare insieme per affrontare un problema, il secondo problema, il terzo problema... dà speranza». Ora, aggiunge, «è da vedere come questa spinta possa finalmente combinarsi con un Paese più pacifico e meglio governato».
Sono tanti gli auspici per il nuovo governo di Joseph Aoun. Li hanno espressi anche i familiari delle oltre 260 vittime dell’esplosione devastante del 2020 nel porto di Beirut, familiari che, incontrando il cardinale Czerny durante un momento di preghiera sabato pomeriggio, di fronte a uno dei due silos esplosi, hanno rilanciato l’appello per «giustizia e verità» a fronte di indagini bloccate e quelli che definiscono «ostruzionismi».
«Volevamo che fosse fatta giustizia e abbiamo fatto il possibile, ma poiché il caso è stato fermato, siamo andati a fare appello al Consiglio internazionale per i diritti umani, affinché si avviasse un’indagine internazionale, così da conoscere almeno la verità. Si tratta di un crimine contro i diritti umani! Tuttavia non abbiamo ottenuto alcuna indagine, solo una dichiarazione. L’indagine ora è ripresa e speriamo che continui con il nuovo governo e il nuovo presidente». A dirlo, con un filo di voce e gli occhi umidi, è stata Mireille Khoury, mamma di Elias, a 15 anni tra le più giovani vittime della tragedia di cinque anni fa. La donna esponeva sabato una foto del figlio nel piccolo corteo che ha pregato insieme al cardinale. Ricciolino, cravattino rosso, un sorriso bianco che spiccava nel buio che cala presto sul porto di Beirut, adombrando pure le gru che lavorano per la ricostruzione. «Guardi, sembra Carlo Acutis», ha sussurrato la donna al porporato che le ha subito poggiato una mano sul capo. «Vogliamo giustizia e verità», scandiva Mireille e insieme a lei Pierre Gemayel, che ha perso il fratello Yacoub, e l’avvocatessa Cecile Roukoz: anche lei ha visto morire il fratello, impiegato in una compagnia di navigazione. Si fanno forza ricordando le parole che Papa Francesco stesso ha pronunciato in Vaticano incontrando nell’agosto 2024 i familiari delle vittime: «Con voi chiedo verità e giustizia, che non è arrivata: verità e giustizia».
Nessuno di loro ha alzato la voce, anche se la loro richiesta è innervata di rabbia e delusione. Al cardinale hanno mostrato sullo smartphone foto e notizie dei parenti perduti e gli hanno chiesto aiuto e anche una benedizione. Al porto erano presenti pure il nunzio apostolico Paolo Borgia, alcune autorità locali e volontari della Caritas. Insieme hanno formato un’unica fila di fronte al memoriale costruito per ricordare le vittime, una lastra in marmo con tutti i 263 nomi, e hanno intonato il «canto della Pasqua», per poi concludere con la preghiera del «Padre Nostro» in arabo. Da parte di Czerny nessuna parola durante tutta la tappa al porto; solo «vicinanza, compassione, tenerezza», le «caratteristiche di Dio» invocate tante volte dal Papa nei momenti di dolore. E anche qualche abbraccio e confidenza raccolta in privato. «La visita di Sua Eminenza ha un grande valore per noi. È stato di supporto e tanto gentile e comprensivo — hanno commentato i familiari delle vittime —. Il sostegno della Chiesa ha un’importanza enorme». Czerny pure ha voluto condividere un commento: «Grande dolore la combinazione della tragedia personale con il rifiuto di trovare la verità», ha detto nella macchina che lo ha accompagnato verso il penultimo appuntamento di una giornata intensa, caratterizzata anche dal traffico congestionato di macchine, motorini e furgoncini di quanti si recavano a Beirut per i funerali dello storico leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah.
Il cardinale prefetto ha fatto visita al centro del Jesuit Refugee Service (Jrs) della capitale libanese, dove — accolto dal giovane seminarista gesuita Michael Petro, chiamato da tutti «brother» o «eroe» — ha incontrato un gruppo di oltre 20 migranti e rifugiati. Donne e uomini, giovani e anziani, di giorno badanti o domestici, una volta usciti da lavoro attivisti e leader di comunità che aiutano i connazionali in difficoltà e pure i libanesi poveri e gli sfollati. Provenienti da Filippine, Sud Sudan, Etiopia, India, Sri Lanka, Bangladesh al cardinale hanno illustrato il proprio lavoro e denunciato gli ostacoli e le difficoltà incontrate in questi anni, soprattutto per le donne, esposte a violenze fisiche, incinte dopo abusi o vittime di razzismo da parte dei membri delle loro stesse comunità solo per aver sposato uomini di altre nazionalità. Mariam, una ragazza della Sierra Leone, ha riportato nel dettaglio quanto subito dalle comunità straniere, sin dalla partenza dai loro Paesi con «agenti» che propongono lavori e fanno firmare contratti in arabo, di cui nessuno capisce le clausole. Oltre a questo, anche il pagamento di circa tremila dollari. Una volta arrivati in Libano, però — ha detto — i migranti incontrano «padroni» che li costringono a lavorare «dalle 9 a mezzanotte». Se chiedono di andar via, vengono minacciati o denunciati per reati mai compiuti, come l’aver rubato in casa. «Se contattano gli agenti gli rispondono: “Ok, ridammi i tremila dollari, c’è scritto nel contratto”. E loro, non avendo neanche documenti, non sanno come fuggire».
In tanti, tramite anche un passaparola, hanno bussato alle porte del Jrs, dove dicono di aver trovato non solo «colleghi», ma anche una «famiglia». Una famiglia che fa rete, che si ritrova a messa o che apre le sue porte ai gruppi di preghiera buddisti, che aiuta fuori e si aiuta dentro, senza guardare a provenienza e religione. Tante le attività, a cominciare dal cricket che raccoglie ogni mese circa 200-300 persone la domenica. «Giochiamo dal sorgere del sole fino al tramonto — ha spiegato Fernando —, la domenica vengono i cristiani e condividiamo la gioia per la messa, con gli altri la gioia dello sport. È un modo per relazionarsi».
«Si sono organizzati tra loro ed è bellissimo», ha osservato Michael, perché altrimenti da soli sarebbero rimasti impantanati in «paure, agonia, sofferenza, nostalgia di casa che accumuliamo dentro, senza sentire il supporto dello Stato».
«Grazie per aver condiviso le vostre difficoltà. Sapete cosa vi può far sentire meglio? Stare qui… Prendere le differenze e nelle differenze creare l’unità», ha suggerito il cardinale Czerny, invitando a puntare sulla «comunicazione» tra loro e con i giornalisti: «Condividete le vostre storie e tutto quello che avete dentro». Ai presenti ha infine lasciato in dono un’immaginetta della Sacra Famiglia in fuga verso l’Egitto: «L’ha dipinta mia nonna, anche noi siamo una famiglia di rifugiati». Lo stesso regalo il cardinale lo ha consegnato ai gesuiti incontrati la sera nella Comunità di St. Joseph. Insieme con l’esortazione a essere «agenti di speranza» in mezzo ai tanti drammi che agitano quest’epoca.