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Bab-al-Tabbeneh, la “favela” libanese dove si combatte
la droga e si sogna la pace

 Bab-al-Tabbeneh, la “favela” libanese  dove si combatte la droga e si sogna la pace  QUO-044
22 febbraio 2025

Hussein ha 32 anni e ha iniziato a drogarsi quando ne aveva 15. È biondo, alto, dai tratti quasi caucasici, e non si direbbe che per oltre un decennio è stato tossicodipendente, senza tetto, spacciatore occasionale per racimolare una “dose” per sé stesso. Hussein ha poi intrapreso un percorso di riabilitazione e da tempo non fa più uso di sostanze stupefacenti. Potrebbe sembrare la classica storia a lieto fine, fatta di cadute e risalite, quella del giovane libanese di Tripoli, a nord del Paese dei Cedri. Ma tra l’iniziare a drogarsi e il “ripulirsi” completamente, c’è in mezzo un’ampia gamma di lacerazioni umane, fisiche e spirituali. Ferite, forse più profonde di quelle inflitte dall’eroina, che si rimarginano dopo anni e anni. Hussein le ha rimarginate e questa, probabilmente, è la sua più grande vittoria. Ce l’ha fatta grazie ad un progetto chiamato Forsa, il primo centro di riabilitazione per le dipendenze situato proprio Tripoli e dedicato a ragazzi come lui finiti per strada e in trappole da cui è difficile uscire da soli.

L’iniziativa — visitata e incoraggiata, ieri mattina, 21 febbraio, dal cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, che sostiene il progetto — è realizzata dalle organizzazioni “Al Manhaj” e “Oum El Nour” sotto il patrocinio di Dar Al Fatwa (l’autorità religiosa islamica), dell’arcidiocesi maronita di Tripoli e dell’esercito libanese. Musulmani e cristiani, quindi, uniti per dare una risposta alla piaga dell’abuso di droghe che affligge l’intera città — priva, a causa della crisi, di strutture per il trattamento e la riabilitazione —, e che travolge in particolare la zona in cui sorge la struttura di Forsa: Bab-al-Tabbaneh. Un quartiere così povero da essere conosciuto come la “favela del Mediterraneo”. Colpa di un conflitto quarantennale (1976-2015) tra residenti musulmani sunniti e alawiti del vicino quartiere Jabal Mohsen, che, oltre a una lunga scia di morti, anche giovanissimi (i loro volti campeggiano in gigantografie appese per strada), ha generato violenza, povertà, incertezza. E anche un abbrutimento dell’intero distretto, ridotto a palazzi diroccati e grigiastri, con l’unico colore dei panni messi ad asciugare sulle inferriate, spazzatura e cumuli di stracci abbandonati sui marciapiedi, botteghe e mercati fatiscenti che vendono tappeti, borse e scarpe fake. Frutta e verdura sono ovunque: in cestoni, vaschette, carretti posizionati in mezzo alla strada a restringere le carreggiate e aumentare il traffico.

Non è facile addentrarsi in questo dedalo di vie, dove si guida come se non esistessero corsie, ci si veste come se non ci fossero stagioni, si fuma come se non ci fosse un domani. Solo nell’ultimo tratto, quando il canto del muezzin va scemando, la strada diventa più ampia e sterrata e in lontananza appare un cartello bianco con una scritta multicolore, Forsa. Una parola araba che significa alla lettera “chance, opportunità” ma che suona come un incoraggiamento: “Forza!”. Quella che si cerca di infondere agli undici ragazzi dai 18 ai 30 anni in recupero in questa struttura a tre piani dalle pareti bianche e dal forte odore di vaniglia. Tutti uomini, tutti ex tossicodipendenti. Gli operatori si prendono cura di loro a 360 gradi: «Si lavora sul bene integrale della persona e sulla dignità», operando anche su dialogo e interazioni per colmare quei vuoti dell’anima che si è tentato di riempire con le droghe. Si inizia dalle piccole cose, come le camerette da condividere sempre in tre «così da aiutarsi e controllarsi a vicenda e creare una fraternità che aiuta», come spiega il presidente di Forsa al cardinale Czerny, accompagnato dal Muftì di Tripoli, Mohammad Imam, dal nunzio apostolico nel Paese, Paolo Borgia e dall’arcivescovo maronita locale, Youssef Soueif.

Alcuni dei ragazzi si fanno trovare in un salotto, in semicerchio, e salutano in italiano stentato il porporato gesuita: «Buonasera», dicono, anche se sono le 10 del mattino. Alcuni poggiano la fronte sulla mano del cardinale, in segno di riverenza. Tra loro c’è Hussein, unico a rendere una testimonianza ai presenti. Proveniente da una famiglia di cinque figli, racconta: «Non sono riuscito a trovare amore nei miei genitori, allora sono andato per strada. Ho iniziato con la droga a 15 anni, ho cominciato a derubare mamma e papà per comprarla. Ho ferito tanto i miei genitori che mi aspettavano svegli fino al mattino che tornassi. Mi hanno visto fuori di me. Nessuno vorrebbe vedere gli occhi dei propri genitori in queste situazioni». Il ragazzo dice di essere diventato «uno schiavo» di sostanze e spacciatori: «Mi chiedevano di uscire alle 3 del mattino, prendere una macchina rubata e far arrivare la droga a qualcuno, così potevo ricevere una dose anch’io. Poi mi lasciavano lì per strada. Sono diventato un senzatetto».

Hussein ha iniziato a odiare sé stesso: «Mi guardavo allo specchio e mi urlavo contro parole brutte. Mi ero stancato di me». Non lo ha fatto sua madre: «In dodici anni non mi ha mai mollato». E lo ha portato al centro Forsa dove «è iniziata la mia nuova vita. Anzitutto — racconta il giovane — ho imparato a essere buono con me stesso, ho iniziato a organizzarmi, a controllarmi, a vivere il giorno come giorno e la notte come notte, non il contrario. Ho imparato a dialogare con me e con gli altri. E ho scoperto la dignità come persona e ho capito che la vita è bella».

Un grosso applauso saluta la testimonianza, alla quale segue l’intervento del cardinale Czerny: «Questo posto è un messaggio, un segno per tutta la società», afferma. Dopodiché il nunzio Borgia si rivolge agli operatori: «Pensate a un bambino andato a giocare fuori che torna sporco, abbiate lo stesso amore del papà e della mamma che lo aiutano a pulirlo. Tirate fuori la bellezza dentro ciascuno».

E se la bellezza avesse un volto sarebbe quello degli oltre cento bambini che, con copricapi tradizionali e grembiulini, accolgono il porporato gesuita nella successiva tappa nella scuola Al-Moutrane Al-Raaiya, istituto storico di Tripoli dalla collocazione strategica, esattamente all’incrocio tra Bab-al-Tabbaneh e Jabal Mohsen. Si racconta infatti che nella scuola ci fossero due ingressi: da uno entravano i sunniti, dall’altro gli alawiti. Fondata nel 1963 sui terreni della chiesa Saydet Al-Hara (Nostra Signora del Quartiere), la più antica chiesa di Tripoli di oltre 1200 anni, la scuola — una delle quindici dell’arcidiocesi maronita — è divenuta nel tempo luogo di incontro e di pace.

Oggi i bambini di tutte le confessioni (i cristiani sono circa il 2 per cento) ricevono «un’educazione comune» e i genitori si incontrano in spirito di rispetto. Passata la guerra, c’è da combattere però l’altra “guerra”, la crisi economica. Molti studenti sono costretti infatti ad abbandonare gli studi per lavorare. Per questo ad Al- Moutrane Al-Raaiya non esistono tasse né rette: si versa una quota minima annuale e si sostiene chi non riesce a pagare. Non sono i soldi quelli che importano all’istituto, bensì il poter «costruire la nazione costruendo l’uomo» attraverso la promozione di valori umani e cristiani, quali il dialogo, l’accettazione dell’altro, la cittadinanza. Un bagaglio di cui si dicono grate diverse mamme, ex alunne: «Qui ci hanno insegnato ad avere dignità, ambizione, ci hanno aiutato a realizzare tutto quello che volevamo realizzare». Per questo hanno voluto iscrivere i figli nello stesso istituto.

Proprio loro, i bambini, sono i protagonisti della parte conclusiva dell’incontro, danzando per il cardinale Czerny e intonando un canto in francese. Il ritmo è quello di una filastrocca, ma il testo è programmatico: «Liberi, uguali e fratelli, nonostante la povertà e la guerra, vi renderemo orgogliosi di noi... Costruiamo un Paese senza povertà. Sogniamo un Paese moderno e pieno di vita. Vogliamo, sì! Possiamo, sì!». (salvatore cernuzio)