· Città del Vaticano ·

Una forza lieve e tenace che aiuta a vivere

Primum ridere

 Primum  ridere  QUO-043
21 febbraio 2025

di Andrea Monda

Tommaso Moro, che di humour se ne intendeva, conia una nuova beatitudine che suona così: beati quelli che sanno ridere di se stessi, perché non finiranno mai di divertirsi. Umorismo e umiltà vanno a braccetto e camminano verso la beatitudine. “Beato” in effetti si può tradurre anche con “felice”, che non è “contento”: non ha a che fare con la “soddisfazione” ma con la “fecondità”. Ridere quindi è ciò che porta la nostra vita a traboccare. È una cosa seria. E invece ridiamo poco, e sorridiamo ancora meno.

Perché una cosa è ridere, un’altra è sorridere, un’altra ancora, anzi l’opposto, è deridere. E infatti deridiamo molto. E così scadiamo nell’ironia amara e in fondo cinica, nel sarcasmo. Lo spiega bene Giorgio Gaber quando dice di “fare il tifo” soprattutto per l’autoironia, proprio come Tommaso Moro, la capacità di ridere di sé: «il guardare se stessi da un’altra angolazione, cercando di capire qualcosa in più di ciò che siamo. L’ironia ci deve coinvolgere, altrimenti si trasforma in sarcasmo, che è un modo ingeneroso di avvicinarsi agli altri».

Un secolo prima di Gaber, dall’altra parte del globo Robert Louis Stevenson compone un Sermone per il Natale che è un piccolo saggio sulla capacità degli uomini di ridere e sorridere, antidoti all’erba cattiva del moralismo: «La gentilezza e l’allegria» scrive, «ecco due cose che vengono prima di ogni moralità; questi sì sono i perfetti doveri.

Il problema con i moralisti è che essi non possiedono né l’uno nè l’altro» e aggiunge: «C’è un’idea che circola tra i moralisti, e cioè che si debba rendere buono il prossimo. Debbo rendere buona una sola persona: me stesso. Mentre il mio dovere verso il prossimo si esprime più efficacemente dicendo che debbo, per quanto posso, renderlo felice».

Ecco, di nuovo, la felicità. E la via è sempre quella: sorridere, ridere con amore, senza astio, partendo da se stessi, sgonfiando quell’ospite ingombrante che ci abita, il nostro ego: «Esigiamo compiti più elevati» chiosa lo scrittore scozzese, «perché non siamo capaci di riconoscere l’elevatezza di quelli che già ci sono assegnati. Cercare di essere gentili e onesti sembra un affare troppo semplice e privo di risonanza per uomini del nostro stampo eroico; piuttosto ci getteremmo in qualcosa di audace, arduo e decisivo: preferiremmo scoprire uno scisma o reprimere un’eresia, tagliarci una mano o mortificare un desiderio. Ma il compito davanti a noi, cioè quello di sopportare la nostra esistenza, richiede una finezza microscopica, e l’eroismo necessario è quello della pazienza. Il nodo gordiano della vita non può essere risolto con un taglio: ogni intrico va sciolto sorridendo».

È una cosa seria, compiere il gesto semplice, a volte impercettibile, del sorriso. Nel gesto del sorriso e ancora di più in quello del riso, il volto finalmente si distende e si apre, la bocca, spesso tenuta chiusa, serrata, quasi in un accigliato risentimento, non riesce più a resistere ad una forza più grande di noi che ci visita e ci travolge. Il riso alla fine è un dono, in quanto tale incontrollabile, misterioso, che ci sposta in un altro mondo dalle dimensioni più ampie, inesplorate. Si tratta di un’esperienza abissale, vertiginosa. Coglie tutto questo in una battuta folgorante un genio dell’umorismo, l’inglese Chesterton quando nel saggio L’uomo eterno, scritto proprio un secolo fa, afferma che: «La più semplice verità sull’uomo è che è un essere veramente strano: strano quasi nel senso che che è straniero a questa terra (…) solo, fra tutti gli animali, è scosso dalla benefica follia del riso; quasi avesse afferrato qualche segreto di una più vera forma dell’universo e lo volesse celare all’universo stesso».

Dovremmo rifletterci su e stare un po’ più attenti a quando ridiamo, a quando, da soli o con qualche amico, ci facciamo le fatidiche “quattro risate”.