
di Stefano Leszczynski
Qualcuno definisce la Repubblica Democratica del Congo “uno scandalo geologico” per la quantità di ricchezze naturali e minerarie che possiede. Sarebbe una benedizione per qualsiasi altro Paese nel mondo, mentre non è mai stato così per questo Paese dell’Africa centrale, conosciuto tra gli anni 1971-1997 con il nome di Zaire.
Senza andare troppo in là con la storia, la predazione del Congo diventa una costante a partire dal Congresso di Berlino del 1885 che assegna il Paese al Belgio di Leopoldo II. Il sovrano europeo ne fa il proprio possedimento personale, ribattezzandolo Stato libero del Congo. A quel tempo una delle materie prime più importanti del territorio per lo sviluppo dei Paesi industrializzati era il caucciù. Si stima che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il regime schiavistico imposto per la produzione della gomma abbia provocato circa dieci milioni di morti.
«Oggi si parla di ricchezza del Paese in riferimento ad altre materie prime, che però continuano ad essere vitali per lo sviluppo delle tecnologie delle grandi multinazionali. Pensiamo ai “metalli critici” come il nichel, il rame, il litio, il cobalto, tutti necessari alle tecnologie green e delle telecomunicazioni». A raccontare il lato nascosto e inconfessabile delle guerre congolesi è Jean Léonard Touadi, funzionario della Fao e docente di geografia economica a La Sapienza.
«Ricordo anche che la bomba atomica fabbricata dagli americani e sganciata su Hiroshima e Nagasaki aveva l’uranio estratto proprio dal territorio congolese». Nel corso dell’ultimo secolo non c’è stato nessuno Stato, nessuna realtà economica o industriale, a poter rinunciare ai tesori della Repubblica Democratica del Congo, ma almeno a partire dalla decolonizzazione si è reso necessario cambiare le strategie predatorie delle grandi potenze. Non più interventi diretti e di forza, ma una più ipocrita strumentalizzazione delle tensioni e delle conflittualità tra le realtà statali africane. Le grandi guerre del Congo, la prima del 1996-1997, e la seconda tra il 1998 e il 2003 (conosciuta anche come Guerra mondiale africana), si può dire siano state combattute per interposta persona.
«Questo è vero — conferma Touadi —. Si dice spesso che il Congo è ricco, ma i congolesi sono, non poveri, ma impoveriti. Le risorse che dovevano essere un punto di partenza privilegiato per lo sviluppo del Paese, per avere valuta estera e investire sulla propria economia, sulle proprie infrastrutture, sui propri bisogni sociali, invece sono state sfruttate da altre potenze. Talvolta potenze africane, ma più spesso potenze non africane o addirittura da realtà industriali e finanziarie legate alle multinazionali».
A titolo d’esempio basterebbe citare l’iniziativa di dicembre 2024 dell’amministrazione Biden per promuovere l’iniziativa del Corridoio Trans-Africano di Lobito. Un’arteria ferroviaria strategica di 1.300 km che collega le ricche regioni minerarie del Katanga, nella Repubblica Democratica del Congo e del copperbelt in Zambia, al porto angolano di Lobito.
Solo in tempi recenti la comunità internazionale ha cercato di promuovere delle regole etiche in materia di esportazione di materie prime provenienti da paesi in guerra, ma si è sempre trattato di misure che sono state facilmente aggirate. «L’Unione europea stessa non ha fatto altro che firmare un memorandum d’intesa con il Rwanda, che pure non produce questi minerali pregiati, ma che è diventato nel corso di questi anni il mercato di transito più fiorente di questi prodotti», spiega Touadi, che conclude: «Non c’è assolutamente nessun controllo e questi prodotti circolano attraverso i Paesi africani come l'Uganda e il Rwanda e alla fine vanno a foraggiare le nostre economie Occidentali”.
Eppure, un intervento internazionale efficace per interrompere la catena degli interessi economici da soddisfare a tutti i costi è possibile e in questo senso premono le tante organizzazioni della società civile, anche in ambito cattolico, per promuovere una sensibilizzazione generale. «Pensiamo al cosiddetto processo di Kimberley, un accordo di certificazione internazionale, legittimato dalla volontà degli stati produttori di diamanti di arrestare il commercio dei cosiddetti “blood diamonds”».
La comunità internazionale, nonostante gli allarmi lanciati dall’Onu circa il rischio di una regionalizzazione del conflitto, si muove con estrema lentezza e l’avvio di ogni forma di colloquio per tentare di mettere fine alla guerra nel Kivu tra l’esercito congolese e l’M23 viene continuamente respinto. «Il problema — afferma Touadi — è che tutti, nessuno escluso, hanno le mani in pasta quando si parla del controllo delle ricchezze del Congo. Questa è una guerra nostra, non una guerra etnica o intra-congolese come qualcuno vorrebbe far credere. E’ una guerra che ci interroga, che interroga il nostro stile di vita e le nostre economie».
I combattimenti che hanno portato i miliziani di M23 a controllare Goma e Bukavu hanno provocato centinaia di migliaia di sfollati e un numero ancora indefinito di morti, ma il bilancio del disastro umanitario potrebbe aggravarsi ulteriormente per il possibile coinvolgimento a catena dei paesi confinanti. Con buona pace della Monusco, il contingente dei caschi blu schierati con funzione di peace-keeping nella Repubblica Democratica del Congo che non vengono ritenuti in grado neppure di garantire la sicurezza dei civili, tanto che il Consiglio Onu per i diritti umani ha annunciato l’istituzione di un nuovo comitato per indagare sulle atrocità e i crimini di guerra commessi nel Nord e nel Sud del Kivu.