Pellegrinaggi giubilari di diocesi italiane
Cammini di fede

di Maria Cecilia Scaffardi*
Sono giunti entusiasti in 250 dinanzi a San Pietro, anche se non hanno nascosto il dolore di non aver potuto incontrare Papa Francesco e l’apprensione per la sua salute, insieme all’affetto reso vivo dalla preghiera. «Nel cambiamento d’epoca che viviamo e con le necessarie scelte che la Chiesa deve compiere, essere pellegrini significa ritornare nella disponibilità di Dio, delle sue scelte, pregando di riconoscerle, sceglierle e attuarle. Un percorso comunitario come la trama di tanti fili che sono le preghiere, le attese e le domande e la richiesta di perdono di famiglie e persone che si sono fatte pellegrine verso Roma». Commenta così monsignor Enrico Solmi, vescovo di Parma, il significato del pellegrinaggio della sua diocesi tenutosi il 15 e il 16 febbraio scorsi.
Cinque i pullman partiti da Parma, con una partecipazione delle diverse componenti del popolo di Dio: presbiteri, seminaristi, diaconi permanenti, giovani in discernimento vocazionale, religiose, coppie di sposi, persone diversamente abili, rappresentanti di comunità etniche, laici impegnati nei diversi ambiti della pastorale. Ciascuno con lo zaino pieno, a volte anche pesante, per la propria storia di vita, ricolmo di attese, desideri, speranze. Come racconta Anastasie, da 25 anni immigrata dalla Costa d’Avorio, dove ha sperimentato il sentirsi reclusa in una sorta di prigione che «blocca il cuore e impedisce alle donne di realizzarsi».
Una storia intessuta di fatiche la sua: la nascita dei figli, la decisione sofferta di separarsi dal marito, e poi la scelta di raggiungere l’Italia, dove ha trovato lavoro e aiutato i figli a studiare. «Non è un caso che io sia venuta a Roma, ma una chiamata», sottolinea, confessando il suo pianto di emozione. «Non mi aspettavo di passare la Porta Santa insieme a tante persone, il vescovo, i sacerdoti... Questo passaggio mi ha aperto ancora di più la fede, sempre in ricerca, per poter meglio affrontare il lavoro che mi aspetta, il tempo che mi resta, sapendo che il Signore è con me. Ho sentito che il Signore ha ascoltato la mia preghiera e mi ha dato un’altra luce sulla mia vita».
Una sorta di bilancio che non può che sfociare nella necessità di ringraziare: «Dire grazie al Signore per tutto quello che ha fatto per me». Luigi, diacono permanente, in pensione ma ancora attivo in Caritas diocesana, ha portato dentro di sé non solo attese personali, ma anche il pianto e le speranze di tante persone ferite (molte delle quali lui stesso ha incontrato e servito). Per questo parla di un «frutto» personale: «cercare di vivere un incontro sempre più profondo con il Signore», che ha desiderio di farne parte con chi soffre: il pensiero alle vittime della guerra, in particolare ai bambini, ma anche alle persone anziane sole.
Tanti i volti che hanno trovato posto nel suo zaino, col desiderio di raggiungere «tutti coloro che hanno bisogno di un sostegno» e di contribuire così a «costruire una società e un mondo migliore». Partendo dagli ultimi.
Luigi ha partecipato insieme alla moglie Angela, con cui ha condiviso questi «giorni intensi»: «quando si è in due si fanno le cose più volentieri». Segno, anche questo, della presenza del Signore, «che ci aiuta nella nostra debolezza». Pezzi di storia, tra i tanti. Fili che, anche grazie a questo cammino personale e comunitario, che ha incrociato testimoni e martiri di ieri e di oggi — dalla nobildonna Cecilia ai martiri del ‘900 — si sono irrobustiti e rinforzati, per tessere — come ha sottolineato il vescovo Solmi — «l’abito nuovo della Chiesa che ha come telaio questo provvidenziale anno di Grazia, nello scenario lucente e drammatico dei nostri giorni, in cui invochiamo la speranza di un mondo capace di pace». Tappa significativa, questo pellegrinaggio, di un cammino che impegna la Chiesa di Parma a essere casa e porta di speranza.
*Direttrice Caritas di Parma