
di Fabio Colagrande
In India la sfida è quella interreligiosa, in Ungheria ha successo la «notte delle chiese aperte»; in Venezuela aumentano gli iscritti al corso di pastorale della cultura, a Malta la Chiesa locale ha allestito un padiglione/laboratorio di arte contemporanea; in Brasile si lavora sul cinema e lo sport, in Italia, a Milano, la fede diventa una risposta all’indebolimento culturale; in Portogallo, a Lisbona, la “Capela do Rato” porta avanti dagli anni Settanta la cultura della democrazia, negli Usa, a Worcester, si lavora per aprire il cattolicesimo locale a una prospettiva globale. Sono davvero tante e diverse le prospettive in cui sono impegnati i Centri culturali cattolici in tutto il mondo, emerse durante l’incontro, Artisans of Hope convocato in Vaticano durante il Giubileo degli artisti e della cultura lunedì 17 febbraio. A unirli c’è però la stessa sfida che sembra più urgente che mai in questo 2025: rimettere in dialogo fede e cultura o — per dirla con Papa Francesco — «radicare la speranza nella cultura». Soprattutto in un tempo in cui, le nuove generazioni — ha ricordato più di un relatore — sono alla ricerca di risposte che il mondo non offre.
«A che servono i centri culturali? E perché la Chiesa ne ha bisogno? Perché è necessario anche nella nostra epoca inculturare il Vangelo». Così, il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, ha introdotto il momento di «ascolto sinodale» fra i rappresentanti dei centri culturali cattolici. Obiettivo dichiarato dell’evento — a cui hanno preso parte delegati dall’Europa, dall’Asia, dalle Americhe e dall’Oceania — era «conoscere le iniziative, le difficoltà e le prospettive» di questi centri. «Vi chiamiamo “artigiani” — ha spiegato il prefetto — perché al contrario del modello industriale, meccanico e massificato, l’artigiano lavora i fili del Vangelo nel tessuto della vita quotidiana».
«Vogliamo rianimare una rete molto importante per noi che è proprio la rete dei centri culturali», ci spiega l’arcivescovo Paul Tighe, segretario del Dicastero, per la sezione cultura e moderatore dell’incontro, con il cronometro in mano per far intervenire tutti. «Vogliamo essere una sorta di hub che facilita la comunicazione fra loro. Ogni centro culturale cattolico svolge attività diverse, perché queste dipendono molto dal contesto culturale e sociopolitico e un po’ anche dalla storia dell’istituzione», aggiunge. «Noi vogliamo capire cosa fanno, quali sono le sfide che devono affrontare e cosa possiamo fare noi per aiutarli». «Quello tra fede e cultura è un dialogo che esige capacità di rischiare sia da parte nostra che da quella degli artisti e degli uomini di cultura, ma è per noi fondamentale».
I cosiddetti “Centri culturali cattolici” esistono, in varie forme, fin dai primi tempi della Chiesa, ma vengono, in qualche modo «istituzionalizzati» con il Concilio. Secondo il numero 53 della Gaudium et spes: «È proprio della persona umana avere bisogno di cultura (...) per raggiungere un’autentica e piena realizzazione». Nel 1982, con la creazione del Pontificio Consiglio della Cultura, comincia un lavoro di sviluppo e coordinamento che porta nel 1993 a Parigi all’organizzazione del primo incontro mondiale.
«Paolo vi nel 1975 con la Evangelii nuntiandi — ricorda durante l’incontro il cardinale de Mendonça — introduce il concetto di evangelizzazione della cultura per rispondere a quella frattura, già chiara all’epoca, tra cultura e fede». Nel 1995, Giovanni Paolo ii, nell’esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa afferma che i centri culturali cattolici «offrono alla Chiesa singolari possibilità di presenza e di azione nel campo dei mutamenti culturali».
«Anche noi viviamo in un’epoca di mutamenti costanti», ha ricordato il prefetto. «Papa Wojtyła li definiva luoghi di ascolto, rispetto e tolleranza — ha aggiunto — e noi siamo qui per stabilire un dialogo, aperti alla diversità che c’è nella Chiesa».
«Nella Evangelii gaudium — ha ricordato ancora il cardinale — Papa Francesco sostiene che “una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali”. I centri culturali cattolici — ha commentato — esistono proprio perché, invece, la Chiesa crede nel valore della comunità. Vogliamo un progetto che vada oltre i vantaggi e i desideri individuali. Questa capacità di sognare, di pensare insieme il lavoro culturale è qualcosa che ci sta veramente a cuore».