
di Roberto Cetera
A fine febbraio nella “striscia di sicurezza” in Libano, di fronte al moshav Zar’it («Mamma, sono lì per proteggere Zar’it», aveva detto lui innumerevoli volte), già sono evidenti i segni di un anticipo di primavera. Una bouganville rossa è fiorita spontaneamente di fronte alla postazione dove è rinchiuso di vedetta un manipolo di soldati di Tśāhal. A mitigare il primo tepore è il vento che scende dal Monte Hermon, insieme però, quel pomeriggio, a una gragnola continua di colpi di mitraglia e mortaio sparati contro la torretta di guardia israeliana dai miliziani di Hezbollah. Il cielo alle 5 del pomeriggio tende già allo scuro e non ci si può difendere da quei colpi se non si sa da dove stanno arrivando. «Dobbiamo salire e vedere dalla cima della torretta». Joni, il soldato Jonathan, non ha esitazioni: è quello che da più tempo sta lì e conosce a memoria la radura, i dossi, i cespugli. «Tranquilli, salgo su io». L’ultima cosa che gli occhi di Joni vedono nella sua troppo breve vita è il verde di un paese che non è il suo.
Anche a Tel Aviv sono le 5 del pomeriggio. Manuela esce dal suo lavoro al Centro Weizmann; ha scordato le chiavi di casa e quindi vagabonda un po’ per le strade della città; così entra in un negozio di dischi (è il 1998, ancora esistono i dischi in vinile) e alle 5 in punto ne acquista uno: si intitola The Way to Paradise. La strada che — lei non lo sa — Joni ha appena intrapreso. Manuela è la madre di Joni. Giornalista, scrittrice, attivista per la pace, Manuela Dviri, ebrea nata in Italia ma naturalizzata israeliana, vive da ormai più di mezzo secolo a Tel Aviv. Ma questa non è la storia di una morte bensì di una nascita, o meglio di una rinascita, quella di Manuela appunto.
«Certo, all’inizio la perdita di un figlio è un ciclone che abbatte tutte le certezze su cui hai costruito la tua vita. È un dolore fortissimo, atroce. Poi Joni era il più piccolo tra i miei figli, quello con cui avevo passato più tempo quando i suoi fratelli erano già andati via di casa, con cui avevo più intimità. Era bellissimo. Dentro e fuori. Però poi capisci che non puoi confinare il tuo dolore nel cassetto dei ricordi, devi trasformarlo attraverso la ragione. Mi dicevano: perdere un figlio è un dolore atroce da cui non ti riprendi mai. Non è vero. Puoi riprendere a vivere, alla condizione di saper prendere la sua vita, e anche la sua fine, nella tua di vita».
Allora cosa hai fatto?
La morte di un figlio ti apre la testa. Mi sono intanto chiesta per cosa e per chi mio figlio fosse stato ucciso. E mi sono risposta che per difendere il nostro paese, Israele, non era necessario occuparne parte di un altro. Ho capito che non aveva senso che i nostri soldati stessero dentro il Libano. Ho capito che il senso della mia vita d’ora in poi sarebbe stato quello di cercare di migliorare il mio paese. Migliorando intanto me stessa. Può sembrare paradossale — e forse per alcuni scandaloso — ma mio figlio mi ha fatto un dono: penso di essere una persona migliore di quanto fossi prima. Se avessi invece coltivato rabbia e spirito di vendetta avrei vissuto peggio. Pensi forse che se i miliziani che avevano ucciso mio figlio fossero stati a loro volta uccisi questo mi avrebbe restituito serenità e pace? C’è forse un’altra cosa che possa darti serenità che non sia fare invece il bene degli altri e del tuo paese?
E quindi cosa hai fatto?
Ho scritto due lettere, una al primo ministro che già allora era Benjamin Netanyahu e una al capo dell’opposizione che era Ehud Barak. Nelle quali chiedevo loro se pensassero che la morte di mio figlio avesse avuto un senso, uno scopo. Se fosse servita a qualcosa. Netanyahu non mi rispose. Gli riscrissi altre due volte, ma non mi ha mai risposto e neanche ha voluto mai incontrarmi. Allora feci una cosa un po’ matta, se vuoi, che appartiene al mio carattere.
Cosa?
Noleggiai un grande cartellone pubblicitario su una strada molto trafficata sul quale scrissi a caratteri cubitali «Barak e Netanyahu, guardatemi negli occhi e ditemi che era giusto che mio figlio morisse!». Non potevano non vederlo.
E Barak?
Barak mi rispose, dicendomi che avevo ragione e che se avesse vinto le elezioni avrebbe ritirato le truppe dal Libano. Cosa che in effetti poi fece, evitando che altri giovani come Joni morissero in quella terra.
Perché hai detto «che appartiene al mio carattere»?
Perché sono una madre. Sono una donna. Le donne penso abbiano un’altra capacità di reazione alla sofferenza. Le donne non si annichiliscono nel dolore, e neanche pensano a vendicarsi. Le donne reagiscono con la ragione e i sentimenti. A ogni latitudine. Pensa alle madri della Plaza de Mayo, o, per rimanere qui, pensa a quella straordinaria figura di donna e madre che è Rachel Goldberg-Polin, la quale continua dopo la morte di suo figlio Hersh a lottare per la liberazione degli altri ostaggi, e invoca che entrambe le parti sappiano riconoscere la sofferenza dell’altro.
Ma il tuo carattere ha qualche cosa di specifico rispetto alle altre madri.
Beh, forse sì. Un mix di spontaneità creativa e di ingenuità. Ti racconto un esempio. Sono arrivata giovanissima in questo paese poco dopo la Guerra dei sei giorni, nel 1967. Giravo il paese insieme al mio fidanzato, per il quale mi ero trasferita in Israele e che poi è diventato mio marito. Ed entrando in Cisgiordania chiedevo: «Bello qui, ma quando gliela restituiamo questa terra? È ora». Sono passati cinquantotto anni e la domanda è ancora tragicamente attuale.
Concretamente come si è espresso questo tuo nuovo senso della vita?
Intanto detti le dimissioni dal mio lavoro al Centro di scienze Weizmann per potermi dedicare a tempo pieno al mio nuovo impegno per la vita e contro la guerra, intraprendendo la campagna cosiddetta delle “4 Madri”, insieme ad altre donne che avevano figli in servizio militare e dicevano che si poteva tranquillamente difendere il nord del paese dove loro vivevano senza rimanere nella “striscia di sicurezza” in Libano.
Il quotidiano «Yediot Aharonot» dopo quella campagna, e il successo del ritiro dell’esercito dal Libano, ti indicò come una delle donne più influenti di Israele.
Ecco, lasciami dire, uno dei pericoli che si affacciano su chi ha attraversato un’esperienza “pubblica” di dolore come la mia è il narcisismo, l’idea di un’esclusività del proprio dolore. A me, al contrario, non interessava essere influente ma che facessero breccia nell’opinione pubblica israeliana le mie idee contro la guerra e l’odio.
Pensi di esserci riuscita?
Penso che, malgrado tutto, in Israele l’opinione della società civile conti. Lo testimoniano le imponenti manifestazioni che ogni sabato prima della guerra si sono svolte contro la riforma della giustizia, e poi, dopo la guerra, per la liberazione degli ostaggi. Il buon senso alla fine finisce sempre col prevalere. E così per l’inchiesta sull’individuazione delle responsabilità del massacro del 7 ottobre 2023, che è chiesta con forza dall’80 per cento degli israeliani. Noi siamo un popolo di immigrati, che è venuto in questa terra con l’idea che questo fosse un porto sicuro per gli ebrei di tutto il mondo. Si viene in Israele per essere sicuri. Il 7 ottobre ha smentito questo assioma che è in fondo la “ragione sociale” del nostro paese. Qualcuno ci deve spiegare cosa è successo e perché lo Stato non è stato capace di difendere i suoi cittadini. Io sono convinta che questa società civile saprà esprimere nuovi leader alle prossime elezioni. La guerra fa schifo, solo uno stupido può volere la guerra. E la maggioranza degli israeliani non è affatto stupida.
Ma intanto la guerra continua.
Sì, e tante madri in questi sedici mesi hanno vissuto la mia stessa esperienza. È terribile che tanti giovani possano morire per le decisioni di una classe politica folle. Come si fa a dire «dobbiamo continuare la guerra fino alla fine»? Alla fine di cosa? Cosa pensa Netanyahu, che Hamas si dissolverà per effetto delle bombe? Allora non ha capito cos’è Hamas. Vorrei tanto che anche le madri palestinesi potessero usare le stesse nostre parole di pace e rivoltarsi contro i loro leader, ma da esse è ancora più difficile esercitare liberamente un’opposizione alla follia omicida della guerra.
In questa reazione, così bella e inusuale, alla perdita di tuo figlio, ha avuto un ruolo la dimensione religiosa?
Io non mi considero religiosa. Sono credente ma non religiosa.
Credente in che cosa?
Beh, credente in mio figlio (dice ridendo). Io credo che in ogni umano ci sia una traccia di divino, un segno di bene che Dio ci ha impresso creandoci, e che sta a noi far emergere. Quello che io oggi faccio è quello che mio figlio vorrebbe io facessi. Ne sono sicura. Ti dico una cosa che ha a che fare con quell’espressione che hai usato: «Non è una storia di morte ma di nascita o rinascita». Io ho sette nipoti. Incredibilmente quattro di essi sono nati lo stesso giorno in anni diversi: il 26 febbraio. Jonathan è morto il 26 febbraio 1998. L’ultimo dei miei nipoti stava per nascere il 25 febbraio poco prima della mezzanotte ma poi il travaglio si è stranamente protratto di qualche minuto ed è nato alle 00,18 del 26. E 18, nella numerologia ebraica, indica il ciclo continuo della vita.
Il transito a questa tua nuova vita come è avvenuto?
È stato abbastanza naturale e anche rapido. Subito dopo la scomparsa di Joni mi feci aiutare un po’ da una terapeuta junghiana perché dentro di me sentivo una voce forte che mi diceva «devi tornare a vivere», non come prima ma più di prima. Dall’altro lato mi angosciavo: «Ma le altre madri che hanno perso figli non si comportano così». E la terapeuta mi disse: «E tu che ne sai di quello che provano le altre madri? Pensi che lui ti voglia vedere soffrire? Quello che provi è giusto, basta che non fai male a nessuno». Sognavo spesso Jonathan nei mesi precedenti la sua morte, sognavo che si smarriva e io non riuscivo a ritrovarlo. Capii da quei sogni che il bravo genitore è quello che — magari non così drammaticamente come nel mio caso — sa lasciare andare i propri figli. Da vivi e anche da morti.
C’è un’altra cosa a cui il tuo nome è legato: il progetto “Saving children”.
Sì, è un progetto che continua ancora oggi e che mi vede impegnata. Consiste nell’occuparsi di bambini palestinesi malati che non possono essere curati per mancanza di fondi o di strutture dalla sanità palestinese. È un progetto che è nato nel 2003 e che va avanti in collaborazione con il Centro Peres per la pace.
Com’è nato?
Conoscevo già padre Ibrahim Faltas, un personaggio straordinario, un uomo di pace, un amico. Mi raccontò di un bambino di Betlemme, ammalato di leucemia. La famiglia aveva finito i soldi a metà del ciclo delle cure. Scrissi un articolo sul «Corriere della Sera» e in pochi giorni ci arrivarono dalla Regione Umbria i primi 5000 euro, e così poté riprendere la terapia e iniziò il progetto. Mi domandai: perché i bambini palestinesi non possono essere curati come quelli israeliani? Così cominciammo ad aiutarne altri, e poi altri ancora. In poco più di vent’anni siamo riusciti ad assicurare le cure a quattordicimila bambini palestinesi, e a formare e specializzare medici palestinesi in ospedali israeliani. Tanta collaborazione ci è venuta dalle regioni italiane e dall’Unione Europea per il progetto dei medici. Una grande mano ci è venuta anche dall’ex sindaco di Orvieto, Stefano Cimicchi, un vero campione del volontariato umanitario. E il mio compagno di avventura fino al suo ultimo giorno di vita è stato Massimo Toschi, che quando l’ho conosciuto era assessore alla Pace della Regione Toscana. Vedi, queste cose non appartengono alla straordinarietà: aiutare e curare i bambini, anche degli altri, appartiene alla tradizione morale ebraica. È la nostra storia: curarli non bombardarli. Oggi abbiamo qualche difficoltà a operare senza il supporto di Usaid nel progetto della formazione dei medici. Jonathan mi ha fatto il più grande dono che si possa ricevere: ha donato un senso alto alla mia vita, come ti dicevo, mi ha fatto essere migliore.
Questo sabato sera anche a Tel Aviv fa un po’ freddo. Manuela indossa un giaccone e un fazzolettone colorato. Usciamo e mi saluta abbracciandomi. Fuori, nella ribattezzata “piazza degli ostaggi”, l’aspettano per la manifestazione. Poi da lì tutti insieme andranno alla dimostrazione davanti al ministero della Difesa.