· Città del Vaticano ·

La forza e il coraggio di chi ha riconquistato la propria libertà

Storia di Joy
sopravvissuta all’orrore

 Storia di Joy sopravvissuta all’orrore  QUO-032
08 febbraio 2025

di Stefano Leszczynski

Joy Ezekiel vuole che il suo vero nome venga scritto per intero, perché è sopravvissuta alla tratta versando vere lacrime e vero sangue: «Oggi è un giorno in cui quasi tutti nel mondo si uniscono per pregare in ricordo delle tante persone che sono ancora prigioniere della tratta e per quelli che hanno trovato il coraggio di uscire da questa forma di sfruttamento».

Aveva appena 23 anni, racconta Joy ai media vaticani, quando la sua famiglia in Nigeria l’ha affidata ai trafficanti perché raggiungesse l’Italia. Si fidava delle persone che le avevano prospettato un futuro di benessere, anche se lontano da casa, e a confortarla era l’idea che avrebbe potuto aiutare la sua famiglia a uscire dalla povertà in cui versava. È per questo che è partita sapendo che avrebbe dovuto affrontare un lungo viaggio, respirando la sabbia del deserto, sfidando la fame e la sete. Ma non immaginava certo l’inferno che avrebbe dovuto attraversare. Un cammino segnato da morte e disperazione. «Nel lager libico in cui sono stata rinchiusa non ci è stato risparmiato nulla: torture, violenze, stupri di gruppo. Con noi c’era una ragazzina di appena 13 anni, si chiamava Grace. È morta tra le mie braccia dopo essere stata violentata e, mentre si spegneva lentamente, tra le lacrime e i lamenti, mi diceva di pregare per lei».

Joy ha pregato tanto, anche sul barchino che infine la portava in Italia. Ha pregato insieme alla madre di una bambina di pochi mesi. E poi ancora a Castel Volturno dove era costretta a prostituirsi nella boscaglia. Ma non serviva a nulla. «In Italia i trafficanti sono riusciti a farmi uscire dal centro in cui eravamo stati rinchiusi. Sono stata gettata sulla strada dalla donna che credevo mi avrebbe aiutata a non tornare in Libia». La rete dei trafficanti è ben organizzata e se si sopravvive alla traversata dalla Libia non c’è nulla che impedisca loro di rintracciarti. «Ti incatenano con il ricatto, minacciando di fare del male alla tua famiglia in Nigeria se non farai quello che loro ti ordinano. Mi hanno fatto credere di avere un debito di 35.000 euro che dovevo restituire prostituendomi, ma non finiva mai e il debito cresceva sempre».

Chi finisce nelle maglie dello sfruttamento si trova solo e isolato, vittima dell’indifferenza di chi approfitta delle sue condizioni di debolezza, incapace di comunicare perché non conosce la lingua e terrorizzato dal fatto che la polizia possa arrestarlo e cacciarlo via dal paese. «Senti che la tua vita è nelle mani di perfetti sconosciuti, chiunque potrebbe farti del male. In ogni momento potresti perdere la vita con centinaia di uomini al giorno che calpestano il tuo corpo e la tua dignità».

Joy conosce bene il fardello della solitudine e dell’abbandono. Anche sua madre, alla quale un giorno di nascosto riesce a confessare per telefono la sua situazione, le risponde di non ribellarsi e di fare in modo di mandare soldi a casa. «Nonostante tutto, sentivo che la vita che stavo facendo non mi apparteneva. Sono stati sogni che avevo da bambina a darmi la forza. Mi sarebbe tanto piaciuto cantare», racconta la donna.

«Ho provato a scappare una volta ma mi hanno ripresa e punita». È stata un’altra donna a rompere il muro di indifferenza che attanagliava Joy mentre cercava di attrarre nuovi “clienti” sul ciglio della Domiziana. «Non ha avuto paura di guardarmi negli occhi e di darmi un foglietto con un numero di telefono a cui chiedere aiuto. Quella sera mi sono messa in ginocchio e ho detto a Dio: guarda l’ultima prova, ora c’è qualcosa».

C’è voluto tutto il coraggio del mondo per tentare nuovamente la fuga e trovare riparo presso “Casa Rut”, fondata nel 1995 da suor Rita Giaretta a Caserta. «Lei mi ha accolto e mi ha fatto sentire una persona nuova. La mattina dopo quando mi sono risvegliata per prima cosa ho sentito di dover chiedere scusa a Dio per aver pensato che lui mi avesse abbandonato, perché io ero arrabbiatissima con lui».

Spiega Joy Ezekiel: «Io cerco sempre di raccontare la mia storia come fonte anche di speranza e non soltanto per far conoscere la sofferenza, mia e di tante altre donne. Voglio che si sappia che c’è sempre una speranza per andare avanti. A tutti quelli che scelgono di voltarsi dall’altra parte dico “non siate complici” perché queste persone potrebbero essere le vostre mogli, le vostre figlie. Qualcuno che ha bisogno di aiuto oggi, non domani».