Il “mito” di Yalta

di Roberto Morozzo Della Rocca
Ricorrono in questi giorni 80 anni dalla Conferenza di Yalta, in Crimea, dove tra il 4 e l’11 febbraio i tre leader delle potenze alleate, Churchill, Roosevelt e Stalin, si riunirono nel secondo grande incontro diretto, dopo quello di Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943). Roosevelt sarebbe scomparso due mesi dopo, e Churchill avrebbe perso le elezioni il successivo 28 luglio, sicché nel terzo dei tre incontri dei leader alleati, quello di Potsdam del 17 luglio — 2 agosto 1945, a rappresentare gli Usa fu Truman, mentre da parte inglese si ebbe una singolare staffetta fra Churchill e Attlee in corso di conferenza.
Il richiamo dei tre incontri non è scolastico. Serve a dire che non fu Yalta l’unica conferenza a orientare gli Alleati nel mappare guerra e dopoguerra. Le decisioni maturarono poco a poco, e accelerarono nella seconda metà del 1945, al termine delle ostilità anche nel Pacifico. Eppure Yalta costituisce un mito: tre potenze rivali vi avrebbero deciso le sorti del mondo in pochi giorni, attribuendosi specifiche zone di influenza, e precorrendo cortina di ferro, guerra fredda, competizione tra mondo occidentale liberale e mondo orientale comunista.
Due considerazioni s’impongono. La prima: non si può leggere la storia anacronisticamente, con gli occhi del dopo. A inizio 1945 Stalin era, per Roosevelt soprattutto, un alleato, non il nemico degli Usa che sarà per Truman. Stavano vincendo insieme una guerra, e che guerra! A Yalta, Roosevelt, che non era un ingenuo a petto di Churchill bensì un grande statista di visione, capace al contempo di duttilità e irremovibilità, promosse una visione partecipativa e inclusiva per il dopoguerra, che immaginava politicamente multilaterale, guidato da Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Cina. Era un grande disegno, non una spartizione del mondo.
La seconda: le opinioni pubbliche amano spiegazioni nette ed eventi risolutori. A volte, le vicende umane vi si prestano. A lungo, Yalta è stata interpretata in questo senso. Ma, generalmente, le vicende storiche sono diverse: subiscono processi non lineari, accumulazioni di fatti anche casuali, e variabili le più diverse, originate da fattori imprevedibili che a stento gli uomini, nonostante i loro sforzi tattici e strategici, riescono a prevedere e dominare. In questo senso Lucio Caracciolo ha osservato: «Contrariamente all’opinione corrente, che ha reso Yalta sinonimo di spartizione del mondo, la “cortina di ferro” non è frutto di un piano. Semmai, dell’assenza di un piano».
La sistemazione dell’Europa postbellica sarebbe durata vari anni, almeno fino alla costituzione delle due Germanie nel 1949. Un piano, nessuno l’aveva, e infatti non ci fu nemmeno un trattato di pace che regolasse le questioni tedesche. C’erano alcuni punti di riferimento stabiliti dalle tre conferenze citate, dalle occupazioni militari dei territori, e poi dalle meccaniche politiche contingenti, mentre lo spirito di guerra fredda prendeva piede in maniera graduale.
Un pittoresco episodio viene talora citato a conferma dell’idea di una divisione dell’Europa postbellica ordita a freddo. Si tratta dell’incontro a Mosca fra Churchill e Stalin del 9 ottobre 1944. Quattro mesi prima di Yalta. È il famoso “incontro delle percentuali”, definitorio di aree di influenza, che Churchill stesso racconterà in questo modo: «Avevo scritto su un mezzo foglio di carta le seguenti percentuali: ‘Romania: Russia 90%. Grecia: Gran Bretagna-Usa 90%. Jugoslavia: 50-50. Ungheria: 50-50. Bulgaria: Russia 75%’. Stalin prese la matita blu che era solito usare e vergò sulla carta un grosso ‘visto’. D’accordo! Alla fine io dissi: ‘Non potrebbe apparire alquanto cinico, se sembrasse che abbiamo disposto di queste questioni, così vitali per milioni di persone, con tanta disinvoltura? Bruciamo il foglio’. ‘No’ mi rispose Stalin ‘lo conservi’». La Gran Bretagna manteneva così l’egemonia sul Mediterraneo, ove si apprestava a intervenire contro i comunisti ellenici, e lasciava all’Urss mano quasi libera in vari paesi balcanici e orientali. In realtà, quando Churchill parlò a Roosevelt dell’accordo, il presidente americano disse che per lui non aveva nessun valore. Mancava qualsiasi legittimazione formale e contraddiceva il suo disegno di un dopoguerra multilaterale e inclusivo. Prima di Yalta, il mezzo foglio di carta era già cestinato.
A Yalta si sarebbe parlato della sistemazione del dopoguerra in una cornice diversamente ampia e formale ancorché amichevole. Si ipotizzò di smembrare lo spazio germanico in più Stati indipendenti, si proclamò una futura Europa che fosse libera e democratica, si prefigurarono governi di coalizione nei paesi via via liberati dal dominio nazista, si discusse la questione polacca, si pianificò una più rapida conclusione della guerra in Oriente mediante l’intervento dell’Urss contro il Giappone, si lavorò al progetto delle Nazioni Unite in sostituzione della Società delle Nazioni dell’interguerra. Molto fu definito in termini generali, e nei fatti lasciato impregiudicato.
Certamente ognuno dei tre leader aveva qualcosa cui teneva maggiormente. È difficile schematizzare opzioni articolate e conversazioni complesse. Ma può dirsi che Roosevelt dava priorità alla configurazione economica del mondo a venire e, quasi novello Wilson, alla nascita dell’organizzazione delle Nazioni Unite quale nuovo ordine planetario multilaterale in cui gli USA, forti di metà del volume dell’economia mondiale, sarebbero stati in qualche modo egemonici. Stalin mirava alla costituzione di un’ampia fascia di territori tra il Baltico e il Mediterraneo che fungesse da cintura di sicurezza imperiale per l’Urss. Churchill intendeva salvaguardare un equilibrio di potenza in Europa, in accordo con la tradizionale preferenza britannica per un’Europa non dominata da una potenza specifica, fosse la Spagna, la Francia, la Russia o la Germania, ma bilanciata tra diverse influenze.
Non fu Yalta a decidere la spartizione dell’Europa. Questa stava avvenendo al di là della politica e della diplomazia. In quell’inizio di febbraio 1945 l’Armata Rossa era a poche decine di km da Berlino, mentre gli anglo-americani distavano 700 km. Le frontiere della guerra fredda venivano disegnate dalla progressiva collocazione degli eserciti vittoriosi. Lo avrebbe detto Stalin a Tito, nell’aprile 1945, senza giri di parole: «Chiunque occupi un territorio gli impone il proprio sistema sociale. Non potrebbe essere diversamente». Non è dato sapere quanta consapevolezza di tale realtà, a Yalta, avesse Roosevelt. Il presidente americano riconosceva però il grande tributo di sangue dell’Urss nella lotta contro la Germania di Hitler. Sappiamo, ex post, che fu superiore ai 26 milioni di morti. Per avere un termine di confronto, i caduti statunitensi nel teatro europeo furono circa 180.000 e quelli britannici 330.000. Nel globale corso del conflitto, l’Urss perse il 15% della popolazione, gli USA lo 0,31, il Regno Unito lo 0,76. Siamo felicemente abituati, in Occidente, a celebrare la vittoria sul nazismo guardando allo sbarco in Normandia. Film e letteratura ci hanno abituato a questo, e anche le celebrazioni anniversarie con il gotha politico dell’Occidente. Ma sul piano dei sacrifici e dei lutti lo sbarco in Normandia e il secondo fronte in Europa furono poca cosa comparativamente alla lotta svoltasi sul fronte europeo orientale. La liberazione di Auschwitz e la conquista di Berlino sono sovietiche.
Sul piano storiografico, il mito di Yalta andrebbe meglio decifrato nelle sue origini. Sergio Romano ne ha indicato varie concause, delle quali la più plausibile riconduce alle accuse contro Roosevelt dei repubblicani americani. A Yalta l’ormai stanco e malato presidente sarebbe stato cedevole verso Stalin nell’ultimo incontro prima della sua scomparsa. La grande espansione di potenza dell’Urss in Europa dopo il 1945 viene così ricondotta alla fragilità e alla distrazione di Roosevelt che non avrebbe contrastato Stalin nel principale confronto avuto con lui. Dalla polemica politica sarebbe nato il mito negativo di Yalta.
Appare invece pienamente condivisibile il giudizio del principale studioso italiano della conferenza di Yalta, Luca Riccardi: «La Conferenza di Yalta è stata uno degli avvenimenti politici più significativi del XX secolo. In quegli otto giorni Roosevelt, Stalin e Churchill si confrontarono per definire diverse questioni di cruciale importanza tra cui la fondazione delle Nazioni Unite, la nuova configurazione della Polonia, il regime di occupazione della Germania, la questione delle riparazioni, le relazioni con la ‘nuova’ Francia di de Gaulle, la partecipazione sovietica alla guerra contro il Giappone, la rinascita democratica dell'Europa. Fu una vera e propria pre-conferenza della pace. In quelle giornate non avvenne una ‘spartizione’ dell'Europa, come spesso è stato detto, ma furono raggiunti compromessi che avrebbero dovuto dar vita a un nuovo sistema internazionale imperniato sul multilateralismo e i principi della Carta Atlantica. La successiva Guerra fredda non fu causata dagli accordi che furono presi a Yalta, ma dal mancato rispetto del loro contenuto».
Nel dopoguerra l’Europa fu spartita tra due opposti sistemi politici e militari. La conferenza di Helsinki, nel 1975, confermando in maniera solenne tale spartizione, ne avrebbe paradossalmente incrinato i fondamenti insistendo sulle libertà fondamentali e i diritti umani, lati deboli del blocco sovietico. Vennero poi Giovanni Paolo II e Gorbaciov, che ebbero la forza di cambiare la storia. Il 1989 avrebbe visto la riunificazione geopolitica non solo della Germania ma dell’intera Europa.
La storia europea, così, aveva un nuovo inizio. Ma anche, va detto, venne subito tentata da un ritorno al passato, ai nazionalismi d’antan. Natura vacuum non patitur. I popoli vivono avendo nel cuore delle passioni. Caduta l’utopia comunista, scomparso il sol dell’avvenire, con cosa sostituirlo? Sarebbe occorsa una visione nuova per il futuro. Il cristianesimo, con la sua concezione dell’uomo e della società, poteva esserlo, ma purtroppo era debole. Né lo poteva il vincente sistema liberista, centrato sull’economia. A scaldare i cuori subentrava invece il ritrovato nazionalismo, più o meno pronunciato e aggressivo secondo i paesi. Le guerre in ex Jugoslavia e in ex Urss, fino alla crisi ucraina degli ultimi dieci anni, lo avrebbero attestato. Libertà e democrazia sono valori magnifici ma vanno riempiti di senso e contenuti positivi: abbisognano di quelle che Nicolas Berdiaev definiva “basi spirituali”, nella religione e nella cultura. Mercato e consumismo non sono basi spirituali. È la sfida di oggi.