· Città del Vaticano ·

La testimonianza della Missione pontificia per la Palestina

Il dolore di Jenin tra attacchi ai campi profughi e morti nelle strade

 Il dolore di Jenin tra attacchi  ai campi profughi e morti nelle strade  QUO-029
05 febbraio 2025

di Federico Piana

L’inferno nel quale Jenin sta sprofondando è condensato tutto in una frase: «L’assalto al campo profughi è simile alla guerra di Gaza». Ad usare questa espressione è Joseph Hazboun ma non è farina del suo sacco: «L’ha utilizzata per primo il sindaco della città palestinese che ha anche fotografato un disastro: oltre un centinaio di unità abitative distrutte, migliaia di famiglie colpite, oltre migliaia di sfollati». E i numeri salgono di ora in ora, difficile stargli dietro.

Quello che sta accadendo dal 21 gennaio con l’avvio dell’azione militare israeliana, che sta interessando anche ogni centimetro quadrato del restante agglomerato urbano, il direttore regionale presso la Missione Pontificia per la Palestina-ufficio di Gerusalemme lo descrive come una carneficina: «I morti nell’area urbana sono davvero molti mentre gli attacchi stanno coinvolgendo anche la vicina città di Tulkarem, compresi i suoi due campi profughi. A Jenin, il comune ha fatto sapere che tre chilometri di strade non ci sono più, come è stata messa fuori uso la via di collegamento con l’ospedale cittadino le cui infrastrutture idriche, fognarie e di telecomunicazioni sono ormai completamente ko».

D’altronde, non è che poi Joseph Hazboun si aspettasse qualcosa di diverso da un’operazione contro gli estremisti che gli stessi israeliani hanno denominato “Muro di ferro”. In una lunga conversazione con «L’Osservatore Romano» fa notare come lo smantellamento del campo di Jenin abbia costretto circa 20.000 persone ad ingrossare il numero dei profughi che stanno cercando riparo non solo nell’hinterland ma anche in altri 17 villaggi del governatorato: «Lo conferma anche l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei profughi palestinesi del Vicino Oriente (Unrwa) che a causa del divieto imposto da Israele e la chiusura del suo ufficio di Gerusalemme Est ha dovuto interrompere le sue attività di aiuto in tutta la Cisgiordania». Con un danno incalcolabile.

Morti, sfollati, dolore e sangue. Una tragica sinfonia che non è una novità per chi conosce la storia e sa bene che c’è un filo rosso che lega passato, presente e futuro: «Non bisogna dimenticare che le operazioni nel campo profughi di Jenin sono iniziate dopo la Seconda Intifada, scoppiata nel 2000 in seguito alla visita alla moschea di Al-Aqsa dell’allora capo del partito Likud, Ariel Sharon, accompagnato dalla sua squadra di sicurezza e da alcuni ufficiali di polizia. Nel 2002 le forze israeliane assediarono il campo e uccisero centinaia di palestinesi distruggendo case ed infrastrutture. Ecco perché, da tutto quel tempo, il campo è diventato una roccaforte della resistenza. Che dal 7 ottobre del 2024 è aumentata per dare maggiore sostegno a Gaza».

I cristiani che si dividono tra Jenin ed i villaggi circostanti sono davvero pochi, circa un migliaio. La maggior parte di loro vive a Zababdeh: qui il sindaco è cristiano, il Patriarcato Latino di Gerusalemme ha un convento ed una scuola e sono presenti anche la Chiesa melchita e quella ortodossa. Joseph Hazboun tira un sospiro di sollievo, uno dei pochi che in questi giorni si può permettere: «A Zababdeh la situazione è migliore rispetto a Jenin anche se non mancano le incursioni ed i raid israeliani mirati alla cattura dei “palestinesi ricercati”. Nel complesso, la comunità cristiana in Palestina rimane saldamente nelle sue città e nei suoi villaggi, pregando per la fine delle ostilità. Per quanto riguarda il blocco e la restrizione dei movimenti, soffrono come i loro vicini musulmani».

Che tutta la Palestina stia sempre più precipitando in una situazione allarmante lo si può capire anche da un viaggio, emblematico: quello che una suora della congregazione di San Giuseppe compie ogni mattina da Betlemme a Ramallah dove lavora in una scuola per infermieri. Normalmente, l’unica strada che collega le due città palestinesi si dovrebbe percorrere in circa un’ora, tenendo conto dei posti di blocco israeliani. Ma adesso non è più così: ai checkpoint, la suora viene trattenuta in media 3 o 4 ore. Se tutto va bene. «Betlemme, come anche Beit Sahour e Beit Jala, è stata circondata da ulteriori cancelli di ferro che rendono gli spostamenti all’interno e all’esterno del governatorato un viaggio lungo e faticoso. Gerico, l’unico corridoio per viaggiare all'estero attraverso la Giordania, è stato bloccato dagli israeliani che hanno anche cancellato tutti i permessi dei palestinesi che lavorano in Israele». Tra questi ci sono anche migliaia di cristiani che da 15 mesi non sanno più come sfamare le proprie famiglie: il rischio è che, prima o poi, scelgano di emigrare in massa. E non fare mai più ritorno.