· Città del Vaticano ·

La forza dei piccoli e l’educazione come mano tesa

Loro ci ri-guardano

epa11163686 Sudanese pupils attend a class at the Faisal Sudanese Foundation school in Giza, Egypt, ...
04 febbraio 2025

di Andrea Monda

«È importante ascoltare: dobbiamo renderci conto che i bambini piccoli osservano, capiscono e ricordano. E con i loro sguardi e i loro silenzi ci parlano. Ascoltiamoli!». Questo l’appello con cui ieri mattina Papa Francesco ha concluso il suo discorso al summit mondiale sui diritti dei bambini, appello ripreso nel saluto finale del pomeriggio, in cui ha aggiunto: «Padre Faltas ha detto una parola, una frase che mi piace tanto: “I bambini ci guardano”. Anche è stato il titolo di un film famoso. I bambini ci guardano: ci guardano per vedere come noi andiamo avanti nella vita».

Francesco fa riferimento al film del 1943 di Vittorio De Sica intitolato appunto I bambini ci guardano che rivela una semplice quanto grande verità: essi ci guardano, ci osservano. E siccome è vero quello che annotava Flannery O’Connor che «gli uomini diventano quello che vedono», lo spettacolo della vita che gli adulti sono in grado di allestire davanti agli occhi dei loro cuccioli gioca un ruolo fondamentale per la vita stessa di questi ultimi. Da qui il tema della grande responsabilità che grava sulle spalle dei genitori.

C’è da aggiungere che man mano che un uomo cresce troverà che nella vita la sorpresa è sempre dietro l’angolo e quello che si pensava fino a poco tempo prima deve essere continuamente messo in discussione e spesso rovesciato.

Questo “rovesciamento” indica che la caratteristica della vita è la sua paradossalità. L’intera umanità crescendo nel suo cammino su questo strano luogo che chiamiamo mondo, ha compreso il paradosso che sta nascosto dentro il tema dell’infanzia che cioè quelli che sembrano “minori” sono i veri “maggiori”, che i bambini non sono i “piccoli” ma i veri “grandi”, non sono i più deboli ma i più forti, i meno importanti ma i più preziosi, insomma che “gli ultimi saranno i primi”.

E anche, il che suona ancora più scandaloso, il fatto che i bambini sarebbero i più intelligenti. Almeno così la pensava Alexandre Dumas che recisamente sentenziava: «Non arrivo a comprendere perché essendo i bambini così intelligenti, gli adulti siano tanto imbecilli. Dev’essere frutto dell’educazione».

Una frase attribuita a Dostoevskij precisa ulteriormente il punto: «Quando un uomo ha grossi problemi  dovrebbe rivolgersi ad un bambino; sono loro, in un modo o nell’altro,  a possedere il sogno e la libertà».

Senza dubbio la grande svolta nel corso della storia umana, quella che ha colto il paradosso della condizione dei bambini, è avvenuta con l’avvento del cristianesimo e con quel Dio fatto bambino che piange nel freddo di una grotta accudito da una giovane madre. Quel bambino che diventato adulto e maestro ha proposto al mondo degli adulti proprio i bambini come modello per poter entrare nella vita piena, nel regno dei cieli.

Prima di Cristo era diverso, anche se già negli spiriti più acuti si era colta la forza preziosa nascosta nel piccolo scrigno delle fragili esistenze dei bambini. Pare che sia stato Pericle a rivolgere queste parole alla moglie Aspasia raccomandandole di “maneggiare con cura” il loro figlioletto: «Donna, ricordati che la Grecia comanda sul mondo, Atene comanda sulla Grecia, io comando su Atene, tu, donna, comandi su di me e questo bambino comanda su di te. Abbine cura quindi, perché vedi quanto potere gravi sulle sue piccole spalle».

Ma forse l’idea che l’età sia l’elemento dirimente, quello che spartisce forza e saggezza, è solo una convenzione e la verità è molto più sfumata e complessa. Così almeno sembra pensare Pablo Neruda che scrive: «Io non credo all’età. / Tutti i vecchi / portano / negli occhi / un bambino / e i bambini / a volte ci osservano / come anziani profondi». I bambini ci guardano e noi e loro ci ri-guardiamo reciprocamente. Il campo in cui questi sguardi si incontrano è quello dell’affetto e dell’educazione (che dovrebbero coincidere) e viene da chiedersi se, alla luce tagliente della battuta di Dumas, quella dell’educazione sia una battaglia persa in partenza. All’ironia del romanziere francese aggiunge un carico ulteriore l’inglese Chesterton, che osserva come «mentre la società si dibatte in una futile discussione intorno alla soggezione della donna, nessuno dirà quanto noi dobbiamo alla tirannia e al privilegio delle donne, al fatto che esse sole regolano l’educazione fino a che l’educazione diviene pressoché inutile, perché il bambino non si manda a scuola per essere istruito se non quando è troppo tardi per istruirlo». È tutto perduto quindi? La formazione delle giovani generazioni è sempre una de-formazione? Forse dovremmo distinguere tra educazione, istruzione e formazione. E già qui emerge come il problema sia vasto e complesso. In una rubrica di un quotidiano, inevitabilmente breve, non è possibile esaurire tali questioni ma è concesso, anzi è doveroso, continuare a stimolare la riflessione dei nostri lettori, magari provando a trasmettere un po’ di speranza. Vale la pena allora rileggere la luminosa lettera che Albert Camus inviò al suo maestro elementare Louis Germain, dopo la vittoria del Nobel: «Caro signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande che non ho né cercato né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. Non sopravvaluto questo genere d’onore. Ma è almeno un’occasione per dirle che cosa lei è stato, e continua a essere, per me, e per assicurarle che i suoi sforzi, il suo lavoro e la generosità che lei ci metteva sono sempre vivi in uno dei suoi scolaretti che, nonostante l’età, non ha cessato di essere il suo riconoscente allievo. L’abbraccio con tutte le mie forze».

L’educazione come una mano affettuosa e tesa verso “quel bambino povero”, sembra di ascoltare i ripetuti appelli di Papa Francesco a questo gesto di custodia, nutrimento e prossimità. E di attenzione. Che è il bisogno primario a cui fanno riferimento questi versi di Shel Silverstein: «Disse il bambino: “A volte mi cade il cucchiaio”. / Disse il vecchio: “Succede anche a me”./ Il bambino sussurrò: “Mi bagno i pantaloni”. / “Lo faccio anch’io” disse il vecchietto ridendo./ Disse il bambino: “Piango spesso”. / Il vecchio annuì: “Anch’io”. / “Ma la cosa peggiore — disse il bambino — / sembra che gli adulti non mi prestino attenzione” / e sentì il calore di una vecchia mano rugosa. / “So cosa vuoi dire”, disse il vecchietto».

Ma visto che il paradosso è la “regola” della vita, proviamo a rovesciare la prospettiva e per farlo ci aiuta un altro poeta, uno dei sommi del Novecento, Rainer Maria Rilke, quando rivendica per gli adulti la necessità assoluta di una “beata solitudine” con parole misteriose e inquietanti: «Una cosa sola è necessaria: la solitudine. La grande solitudine interiore. Andare in sé stessi e non incontrarvi, per ore, nessuno;  a questo bisogna arrivare.  Essere soli come è solo il bambino». Forse è questa condizione quella a cui alludeva Gesù quando proponeva l’immagine del bambino come modello da seguire? «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me» (Mt 18, 3-5). In effetti, a legger bene quei quattro brevi libri, anche lui, Gesù, in molti momenti della sua vita su questa terra, e soprattutto nelle ultime ore, rimase da solo, solo come è solo un bambino.