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Intervista con il rettore dell’Università di Betlemme

«Aleggia un clima di tensione e paura ma noi siamo pacifici e resilienti»

 «Aleggia un clima di tensione e paura ma noi siamo pacifici e resilienti»  QUO-028
04 febbraio 2025

Da Betlemme
Roberto Cetera

Quando nel 1964 Papa San Paolo vi — il primo dopo san Pietro — visitò la Palestina, che allora soggiaceva alla giurisdizione del Regno di Giordania, guardando alle precarie condizioni di vita della popolazione, espresse il desiderio che due progetti venissero realizzati in loro favore. Il primo era la costruzione di un collegio per bambini sordomuti che venne poi realizzato a Beit Jala con il nome di “Effetà” e affidato alle suore dorotee; e il secondo l’apertura di un’università cattolica che permettesse la formazione di una nuova classe dirigente palestinese opportunamente preparata. Otto anni più tardi, in uno scenario completamente cambiato dopo la “guerra dei sei giorni” del 1967, il desiderio di Paolo vi trovò soddisfazione: l’allora delegato apostolico, arcivescovo Pio Laghi, per conto della Santa Sede, avviò la realizzazione di un’università cristiana a Betlemme, affidandola ai Fratelli delle Scuole Cristiane di De La Salle, che erano presenti in Terra Santa già dal 1889. Oggi l’Università di Betlemme è una realtà consolidata ed affermata che prepara gli studenti in un ampio arco di materie: dal Turismo, alle Arti, all’Economia, alle Scienze, al Business, alla Formazione pedagogica e didattica, e all’Ingegneria.

Con l’occupazione israeliana della Palestina la vita dell’Università è stata interessata da innumerevoli ostacoli e difficoltà: i militari israeliani l’hanno chiusa ben dodici volte, ma ad ogni occasione docenti e studenti sono stati determinati a non interrompere la didattica. Quando venne chiusa per tre anni consecutivi, le lezioni e gli esami continuarono con soluzioni di fortuna in case private o chiese. Fratel Hernan Santos, lasalliano, ne è oggi alla guida.

Fratel Hernan, qual è oggi la fotografia dell’Università di Betlemme?

La nostra Università accoglie oggi oltre 3.300 studenti, preparati da 100 professori full time, e 112 part time. Un dato a cui attribuiamo molta importanza è che ben il 78% degli studenti e il 38% degli insegnanti è costituito da donne. La metà degli studenti è di Betlemme, ma un 40% viene da Gerusalemme, e un 10% da Hebron e altre località della Cisgiordania meridionale. Il 21% dei nostri studenti è cristiano (pressocché esclusivamente cattolici latini e greco ortodossi) in una terra che, ricordiamo, vede complessivamente solo il 2% di cristiani. Il restante 79% proviene dalla fede musulmana. A questo proposito mi piace sottolineare due cose: che la socialità tra i ragazzi è totalmente indifferente alla professione religiosa, e anche che gli studenti e le studentesse musulmane aderiscono con grande favore alla nostra proposta formativa che è decisamente improntata alla pace e alla non violenza. Nondimeno, il collante delle diversità culturali e religiose è dato dalla comune volontà di resistere all’ingiusta occupazione militare; non esitiamo a definirci un’«università di resilienza». Pacifici ma resilienti.

Com’è cambiata la vostra situazione dopo il 7 ottobre 2023?

«In peggio, sotto molti aspetti. Intanto la situazione economica è disperante. E questo si riflette sulla capacità degli studenti di sostenere le rette. Deve considerare che accanto al crollo del turismo — che impiega tanti betlemiti — dovuto all’assenza di pellegrini, sono bloccati anche i lavoratori di altri due settori importanti: l’agricoltura e lo scavo di pietre e marmi. È l’effetto del ritiro di circa 200.000 permessi di transito dal muro di separazione per i lavoratori palestinesi. Noi cerchiamo di aiutare i nostri studenti più bisognosi, ma non possiamo aiutare tutti. Ci sono alcuni che hanno venduto i mobili di casa per continuare a mangiare e a studiare. Cerchiamo di sostenerci con delle donazioni e con il supporto che ci viene dal dicastero delle Chiese Orientali della Santa Sede. E poi per quella metà di nostri studenti che viene da fuori Betlemme il passaggio ai checkpoint per raggiungere l’università è diventato problematico, se non impossibile; pensi che dal 7 ottobre intorno a Betlemme sono state erette 97 nuove barriere oltre ai checkpoint già esistenti. E soprattutto aleggia un clima di tensione che certo non agevola lo studio; la paura è che si tenti ora di spostare il conflitto da Gaza verso la Cisgiordania, come i fatti di questi giorni a Jenin sembrano indicare.

Malgrado tutto ciò state pensando ad un ulteriore sviluppo della vostra attività accademica.

Sì, ho presentato in questi giorni un piano quinquennale che prevede l’acquisizione di ulteriori 800 studenti. In cima ai nostri propositi c’è l’obiettivo di non far partire i giovani, e in particolare i cristiani, che stanno subendo una forte emorragia qui a Betlemme. Fornire loro un’adeguata preparazione accademica qui, e non all’estero, è un antidoto decisivo alla migrazione. Per riuscirci abbiamo bisogno però dell’aiuto anche delle vostre comunità cristiane in Occidente.