· Città del Vaticano ·

La nota «Gestis verbisque» del Dicastero per la dottrina della fede / 8

Un «io» dilatato
nell’Io di Cristo
e nel noi della Chiesa

 Un «io» dilatato nell’Io di Cristo  e nel noi della Chiesa  QUO-026
01 febbraio 2025

di Alessandro Clemenzia

«Nell’esperienza di un grande amore tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Attraverso queste parole di Romano Guardini si può rintracciare un possibile orizzonte interpretativo della Nota Gestis Verbisque sulla validità dei sacramenti del Dicastero per la Dottrina della Fede.

Si tratta, infatti, di un documento che non si limita a ribadire l'obbligo, da parte dei ministri, di attenersi alle formule liturgiche approvate dalla Chiesa, ma intende risvegliare in tutto il Popolo di Dio, a partire dai Pastori, il desiderio di lasciarsi sorprendere dalla novità della presenza di Cristo, che si inaugura ogni giorno nella liturgia, e di cogliere e accogliere questa presenza con quello sguardo di fede che ogni credente è chiamato esistenzialmente a inverare e a rinnovare. E come in un grande amore tutta la realtà sembra in qualche modo raccogliersi e interpretarsi all’interno dell’esperienza di quel rapporto, tanto che tutto ciò che accade sembra esserle intimamente legato, così per il cristiano la persona di Cristo è qualcosa alla luce della quale tutta la realtà acquisisce il suo senso più vero e autentico. E come in «un grande amore» forte è l’attrazione di stare fisicamente accanto alla persona amata, così nella vita di fede la tensione verso ciò che fa accedere concretamente alla presenza di Dio non può mai affievolirsi.

Quando, a causa delle diverse distrazioni, comincia a svanire il desiderio dell'incontro, ciò che accade non viene più colto in relazione alla persona amata, e a quel punto tutto viene ricondotto unicamente al proprio “io” e ogni circostanza diventa occasione di autocentramento. Si tratta di quella mondanità spirituale di cui Evangelii gaudium ha chiaramente spiegato la natura, che «consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore. la gloria umana ed il benessere personale», comportamento diffuso che «si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa» (EG 93). È l'atteggiamento tipico di chi non è più determinato da una relazione profonda, e ha così smarrito l'orizzonte dentro il quale interpretare tutto ciò che accade. In questa situazione, in modo talvolta inconsapevole, tutto diventa occasione di esibizionismo personale, giustificato da un bene che riguarda il più delle volte non se stessi, ma gli altri. Tale finalità altruistica porta anche ad appropriarsi di cose non proprie, in quanto — in una realtà non determinata più dal rapporto con il proprio “tu” — ciascuno pone il tutto in una relazione esclusiva con se stesso.

Nella vita ecclesiale questo atteggiamento può assumere diverse forme, in base alle circostanze della vita o a quelle che vengono considerate le proprie attitudini personali; una variabilità di possibilità, tutte accomunate da un certo protagonismo, che rende la persona ormai incapace di stupirsi per ciò che accade. Questo si riversa anche nell’ambito della liturgia e, in particolare, dell'amministrazione dei sacramenti, la cui bellezza scaturisce dal rendersi presente di Cristo stesso, attraverso «eventi e parole intimamente connessi» (n. 1).

Per questa ragione, afferma la Nota del Dicastero, «la Chiesa è “ministra” dei sacramenti, non è padrona. Celebrandoli ne riceve essa stessa la grazia, li custodisce e ne è a sua volta custodita» (n. 11).

Il ministro, con le sue parole, non deve offuscare la bellezza dell'incontro con Cristo, che avviene proprio attraverso la celebrazione del sacramento; si potrebbe recuperare, a tale proposito, quanto è scritto in Evangelii gaudium a proposito dell’omelia, quando si afferma: il «predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del ministro» (EG 138). Si tratta di riconoscere la liturgia come luogo concreto attraverso il quale Cristo continua incessantemente a raggiungere ogni uomo e donna nella condizione in cui si trovano; ed è in questa dinamica cristologica che «la Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e fonte di un rinnovato impulso a donarsi» (EG 24).

Perché tutto ciò che accade nella celebrazione dei Sacramenti possa essere esistenzialmente compreso da tutto il Popolo di Dio, è necessario che l’«io» del ministro spezzi il proprio desiderio di emergere, per dilatarsi verso una duplice direzione: verso l’«Io» di Cristo e verso il «noi» della Chiesa. La Nota Gestis Verbisque spiega tale dilatazione sacramentale del ministro attraverso due formule classiche che riguardano l’azione del presbitero: in persona Christi e in nomine Ecclesiae. La prima allude al ripresentarsi di Cristo stesso nei celebranti; da questo scaturisce che coloro i quali «in forza della grazia sacramentale, vengono configurati a Lui, partecipando dell’autorità con cui Egli guida e santifica il suo Popolo, sono pertanto chiamati, nella Liturgia e nell’intero ministero pastorale, a conformarsi alla medesima logica, essendo stati costituiti pastori non per spadroneggiare sul gregge ma per servirlo sul modello di Cristo, Pastore buono delle pecore» (n. 24). La seconda formula, invece, allude al fatto che il celebrante, nella sua azione, «rende altresì presente di fronte al proprio Capo questo Corpo, anzi questa Sposa, quale soggetto integrale della celebrazione, Popolo tutto sacerdotale a nome del quale il ministro parla e agisce» (n. 25).

Attenersi alle norme liturgiche, dunque, non è rigidismo pastorale o rubricismo, altra faccia della mondanità spirituale (di cui parla Evangelii gaudium), che si manifesta in coloro che mostrano «una cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa» (EG 95), ma è il riconoscere, spiega ancora la Nota, «il primato di Cristo e l’actuosa participatio di tutta l’assemblea liturgica» (n. 26), evitando ogni forma di fantasia sregolata, anche se compiuta con le più rette intenzioni pastorali.

La Nota, così, non intende mettere al centro dell’attenzione una norma da rispettare, ma la bellezza della liturgia, come luogo dell’evangelizzazione e della santità del ministro, che è chiamato in ogni celebrazione a dilatare il proprio «io» nell’«Io» di Cristo e nel »noi» della Chiesa.