· Città del Vaticano ·

La messa del cardinale segretario di Stato per il Tribunale della Rota Romana

Pacatezza e pazienza rifuggendo dalla faziosità

 Pacatezza e pazienza  rifuggendo dalla faziosità   QUO-025
31 gennaio 2025

Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, nella messa presieduta stamane, venerdì 31 gennaio, nella Cappella Paolina in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota Romana.

Signor Decano,
Illustri Prelati Uditori, Officiali, Avvocati
e Collaboratori del Tribunale Apostolico della Rota Romana,
Fratelli e sorelle,

Sono tante le suggestioni che a noi provengono da questa pagina evangelica e sono tutte riconducibili al Regno di Dio e al suo inesauribile mistero.

È il tema centrale del Vangelo. Non è qualcosa di estraneo a Cristo, distaccato da Lui, ma è Lui stesso in persona, Verbo eterno del Padre fattosi vero uomo, Emmanuele, Dio con noi.

È, allo stesso tempo, dono e promessa. Gesù lo annuncia e lo rende presente, ma esso sarà pienamente compiuto e realizzato nell’eschaton finale.

Qui sulla terra è fermento in atto, seme che germina nascosto con forza ed efficacia infallibile.

E noi possiamo offrire la nostra umile collaborazione a questa crescita, aprendoci all’azione dello Spirito Santo che abita nei nostri cuori, rimuovendo gli ostacoli, vivendo nella fiducia rassicurante che Dio opera in noi notte e giorno, così come notte e giorno, sia che l’agricoltore dorma o vegli, «il seme germoglia e cresce».

La storia del Regno di Dio, infatti, non può essere valutata dai nostri insuccessi sia che siamo svegli o dormienti, anche se è chiamata in causa la nostra responsabilità e il nostro onesto impegno.

Né le nostre pigrizie riusciranno ad ostacolare il cammino del Regno, né la nostra frenetica agitazione lo agevolerà, se non saremo accompagnati dalla grazia divina che segretamente lavora negli animi, e se non saranno rette, limpide ed oneste le nostre intenzioni.

E la Chiesa — che se, pur non esaurisce, tuttavia anticipa e rende presente nella storia e in mezzo all’umanità il Regno di Dio — ben sa che questo Regno cresce nei giorni luminosi e tranquilli e nelle notti e oscure delle persecuzioni o nell’avvilente grigioredell’indifferentismo.

Il Regno di Dio cresce per la sua forza intrinseca e invincibile, cioè per virtù di Dio stesso.

Piccolo e impercettibile granello di senape, il Regno di Dio annunciato e reso presente dal Signore Gesù, germina in quel remoto angolo di Palestina e conta pochi uomini, sovente disorientati che seguono il Maestro di Nazareth, alla cui morte sembra tutto finito, ma tutto, tutto ricomincia con il sepolcro vuoto, con la vittoria pasquale di Cristo sul male, sul peccato, sulla stessa morte. Il granellino di senape è divenuto così cattolicità, universalità, non solo e non tanto in senso spaziale (quantunque anche in questo), ma secondo la dimensione della profondità, che è quella dello spirito, poiché ha sollecitato e coinvolto lo spirito umano e si è sviluppato come l’immensa pianta di Dio alla cui ombra possono trovare riparo e conforto tutti gli uomini di buona volontà che cercano con sincerità e onestà la verità, e son desiderosi di pace e intendono praticare la legge dell’amore.

Ma un’ulteriore riflessione ci sollecita l’odierna pagina evangelica.

Il fiducioso abbandono in Dio, cui siamo invitati, poiché Egli fa crescere il seme, ci dice che dobbiamo coltivare il gusto della pacatezza e il senso dell’attesa del tempo della mietitura, allorquando il frutto è maturo «e arriva la falce».

E l’attesa non è mai vana, infatti la mietitura certamente verrà e — ricordiamolo — fisserà per sempre ciò che nel tempo si è liberamente scelto: l’accettazione o il rifiuto dell’amore.

Pacatezza e pazienza, che sono virtù necessarie e, dire, costituzionali — insieme all’impegno quotidiano di una fatica silenziosa — di ogni buon giudice, cari Confratelli che componete l’autorevole Collegio Prelatizio degli Uditori di Rota e che oggi, come da secolare, lodevole consuetudine, date inizio al nuovo Anno Giudiziario con questa S. Messa con cui invocate lo Spirito Santo e con l’udienza del Papa, in nome e con l’autorità del quale pronunciate i Vostri giudizi.

Pacatezza e pazienza nello studio attento delle cause che — come ben sapete — non sono astratte esercitazioni accademiche, bensì umane, umanissime, spesso doloranti e drammatiche vicende esistenziali.

Mi piace qui citare le sapienti parole di un grande giurista laico dello scorso secolo, Piero Calamandrei, che valgono anche per i giudici ecclesiastici: «Al giudice non si richiede tanto di essere un giurista profondo, un raffinato amatore di acrobazie teoriche, quanto di essere un uomo di buon senso e di esperienza umana che con diligenza e acume sappia ricostruire i fatti, senza indursi per amore del virtuosismo dogmatico, a perdere il contatto con il solido terreno della realtà» (Op. giuridiche, v. viii, 1965-1985).

Pazienza, dicevo, che — nell’accezione etimologica — viene dal verbo patior, e non significa solo accuratezza e attenzione, peraltro doverose, nello studio degli Atti, bensì capacità di farsi carico, cioè di compassione nei confronti del caso che avete “prae manibus”.

E questa pazienza/compassione nasce dalla consapevolezza che quello giudiziario, nella Chiesa, è un ministero di verità, un servizio prestato alle anime in vista di un bene superiore che si spera di conseguire, compatendo, comprendendo l’imperfezione altrui che si è chiamati a giudicare e, che assai spesso, non è dissimile dalla nostra e rifuggendo sempre da qualsivoglia animosità, faziosità, personalismi o atteggiamenti e posizioni preconcette.

Per cui con il suo stile lapidario, Seneca afferma che «bonus iudex damnat improbanda, non odit» (De ira, 1.16.) «Il buon giudice condanna le cose riprovevoli [ma] non odia».

E di questa pazienza che si fa compassione, ci ha dato l’esempio massimo e sublime Cristo Signore, Giudice divino che si è caricato non solo della sofferenza e del dolore, bensì del peccato degli uomini per cancellarlo: Agnus Dei, qui tollis peccata mundi.

Ci ammonisce la Sacra Scrittura nel Proverbi (Pr 14, 17): «impatiens operabitur stultitiam». «L’impaziente commetterà stoltezza».

E a mantenere, custodire, coltivare e accrescere questa “pazienza”, che è poi un’autentica forma di sapienza della mente e del cuore, ci soccorra Lei, Maria, Madre dell’Etema Sapienza e del Buon Consiglio e tersissimo Speculum iustitiae.

Così sia.