
di Violante Sergi
Quando arrivo a “Casa Speranza” viene ad accogliermi un prete siciliano, ricco di vita e di carità. È don Giovanni
Carollo. È stato lui,
d’accordo con i superiori orionini, a dar vita a “Casa Speranza”, una struttura in grado di ospitare fino a 14 persone senza dimora.
Come nasce l’idea di “Casa Speranza”?
Abbiamo ascoltato l’appello del Santo Padre che invitava le famiglie religiose ad aprire le strutture vuote e gli abbiamo dato seguito.
La struttura sita a Roma, in zona Monte Mario, è un’opera voluta e sostenuta non solo dal Santo Padre, che con il cardinale Konrad Krajewski — il suo elemosiniere — ha fornito l’arredo alla casa, ma anche dalla Chiesa di Roma nella persona del cardinale vicario Baldo Reina, che il 2 gennaio ha inaugurato l’opera assieme anche al direttore della Caritas diocesana, Giustino Trincia. Perché questo nome: “Casa Speranza”?
Deriva dal Giubileo che stiamo vivendo, perché siamo consapevoli che noi diamo speranza ai nostri amici senza dimora, ma sono anche loro che danno speranza a noi, perché nella carità alla fine si realizza quello che dice il Vangelo: è dando che si riceve. Anzi, diciamo che a volte c’è una sproporzione tra ciò che si riceve e ciò che si dà, a volte noi pensiamo che dando facciamo cose belle — e le facciamo, sono cose nobili — ma quello che si riceve è ben più grande.
Qual è la cosa più bella che tu, don Giovanni, hai ricevuto?
Appena diventato prete, nel 1999, sono stato incaricato di essere l’assistente dei ragazzi disabili, circa cinquanta, che stanno qui, nel “Centro Don Orione”.
In cosa consiste il centro?
Direi che è l’espressione poliedrica della carità del nostro fondatore. Un santo della carità che si è preso cura dell’uomo nella sua totalità, corpo e anima, perciò nelle opere orionine rientrano sia quelle di carità assistenziali per la cura del corpo — come le rsa, le case per anziani, le case di riposo e le case per disabili — sia le opere per la cura dell’anima — come le opere di carattere educativo, ossia le scuole, e le opere di carità pastorale, come le parrocchie, gli oratori e i santuari. È proprio da san Giovanni Bosco, di cui fu allievo, e poi da san Giuseppe Benedetto Cottolengo che don Luigi Orione prende questa specificità della carità in un senso globale. E proprio l’esperienza con i ragazzi disabili ha determinato la mia identità sacerdotale di oggi. Se io sono prete così è perché loro mi hanno insegnato a essere prete così, oltre che a essere uomo. Il disabile ti insegna a vivere e a valorizzare la vita, a volte noi guardando il disabile abbiamo uno sguardo di commiserazione, invece, accostare il disabile diventa una scuola di vita per vivere la vita, sembra una tautologia, ma non lo è perché noi possiamo vivacchiare, possiamo spendere la vita facendo scorrere il tempo mentre loro ti insegnano a gustare e a valorizzare la vita per quello che è.
C’è stato un incontro in particolare che ti ha segnato?
Un ragazzo che adesso sta con il Signore. Si chiamava Vittorino, era la mascotte del “Don Orione” e con me aveva un legame filiale, mi considerava il suo papà se non suo fratello. Non si staccava da me un minuto e questo suo affidarsi totalmente nelle mie mani mi faceva pensare a quello che Gesù dice nel Vangelo: Beati i poveri in spirito. Beati coloro che si affidano, che sanno che tutto il loro essere, la loro esistenza dipende da Dio. Ecco, i ragazzi disabili ti insegnano proprio questo: io mi fido di te, fanno un atto di fede nella tua persona, nella tua carità e sanno distinguere se tu doni loro il tuo tempo, le tue energie, il tuo amore, il tuo affetto con cuore sincero o se lo fai perché “vabbè, devi farlo”. I ragazzi disabili riescono a distinguere chi opera solo per lo stipendio e chi, invece, si vuole fare prossimo, fratello.
La lezione di vita appresa con i disabili don Giovanni la mette in pratica, e con lui gli altri religiosi della Piccola Opera della Divina Provvidenza, nell’accogliere i senza fissa dimora a “Casa Speranza” per dare loro non solo un tetto, ma una casa, un focolare domestico, una famiglia.
La nostra relazione con i nostri amici senza dimora è dettata non solo dall’assistenza, ma dalla carità, dal fare famiglia. Con tutti loro, ormai, ci chiamiamo per nome, ci conosciamo e questo anche perché un ambiente piccolo come “Casa Speranza” e un gruppo ristretto — possiamo ospitare al massimo 14 persone — favoriscono la creazione di relazioni familiari che, invece, in un contesto più grande è più difficile».
Come si fa famiglia?
Grazie a piccole cose, come ad esempio questo piccolo refettorio. È qui che ci sediamo tutti insieme la sera a tavola, è qui che parliamo e i nostri amici senza dimora ci raccontano le loro storie, i loro sogni, le loro avventure, i loro problemi.
Qual è la risposta degli ospiti alla vostra accoglienza, al vostro fare famiglia?
Sono riconoscenti e non solo perché li aiutiamo, ma perché li facciamo sentire a casa. Don Orione dice proprio questo, che noi dobbiamo imparare a vedere e servire nell’uomo Gesù stesso, il figlio dell’uomo, perché nel più misero degli uomini brilla l’immagine di Dio. Quando noi viviamo il servizio verso il prossimo, è vero, c’è la parte assistenziale, ma c’è, soprattutto, quest’atto di fede che, come dice il Papa, ci porta a toccare nella carne del povero la carne di Cristo stesso.
Come si “regge” la casa: avete sovvenzionamenti, contributi statali?
“Casa Speranza”, e tutto quello che avviene nella casa, è nelle mani della Divina Provvidenza. Non abbiamo sovvenzionamenti. Il cardinale Krajewski è stato il primo benefattore, e ogni giorno arrivano segni concreti della Divina Provvidenza. Questo è il miracolo che fa la carità. La carità è veramente universale e scalda i cuori di credenti e non credenti, di praticanti e non praticanti, di cristiani e non cristiani, perché la carità elimina ogni barriera, culturale e anche religiosa, oltre che sociale.
Quanto durerà quest’opera? Finito il Giubileo della Speranza anche “Casa Speranza” finirà?
Il Papa col suo invito ha dato l’input, poi, le mie intenzioni sono di proseguire. E sarà la carità di noi tutti a determinare se questo seme di speranza continuerà a dare frutti oltre il Giubileo oppure no.
Qual è la tua speranza per questo nuovo anno?
Ho il sogno di aprire una comunità a Lampedusa e quindi spero che anche questo sogno possa tradursi, com’è stato per “Casa Speranza”, in realtà.
Don Giovanni fa una breve pausa poi aggiunge:
Io sono stato agli sbarchi perché ho voluto, come dice il Vangelo di Giovanni, vedere e toccare con mano. Vedere e toccare con mano è diverso del solo sentire o ascoltare i media. Ho ascoltato gli isolani e soprattutto i pescatori che raccontano cose veramente orribili, che quando escono per la pesca spesso i loro computer di bordo segnalano barche affondate, imbarcazioni che stanno in mare che nemmeno noi sappiamo, oppure mi raccontano che quando vanno a pesca nelle reti entra di tutto e di più, anche resti umani. Una cosa che mi ha commosso molto è un pescatore che, quando Papa Francesco a Lampedusa lo ringraziava per il suo coraggio, lui ha risposto: Bisogna avere più coraggio a voltarsi indietro e non guardare che a guardare.
E in una società, come quella attuale, dove in tanti, forse troppi, hanno il “coraggio” di voltarsi altrove, in un mondo che sembra quasi assuefatto alle ingiustizie, è ancora possibile la speranza?
La speranza non delude, dice San Paolo, e Papa Francesco nella predica della notte di Natale aggiungeva sempre: la speranza non delude mai. Questo mai comporta che ognuno di noi deve denunciare ciò che non va e impegnarsi a fare di più e meglio, e a me, da buon palermitano, viene in mente il padre Pino Puglisi che diceva: Se ognuno fa qualcosa facciamo molto.
Quello che don Giovanni e tutto il “Don Orione” sta facendo con “Casa Speranza”, e non solo, è proprio questo: non delegare, ma fare.