
di Nicolaie Atitienei *
A volte, quando cerchiamo ad ogni costo il bene intorno a noi, qui a Toronto rischiamo di rimanere delusi. Ci ostiniamo a cercare un bene “convenzionale” che però tarda a manifestarsi. Anzi, potremmo persino dire che, di questi tempi, neppure si manifesta.
Molte cose sembrano somigliare alla Cronaca di una morte annunciata (Gabriel Garcia Márquez). C’è tanto pessimismo intorno a noi. Sembra che tutto, inevitabilmente, debba andare sempre peggio anche se spesso non ci accorgiamo delle tragedie che avvengono proprio sotto i nostri occhi.
A causa delle guerre che insanguinano il mondo, in Canada arrivano sempre più rifugiati, ma il governo sta modificando le sue politiche, prevedendo che tre milioni di persone se ne vadano nei prossimi anni. I rifugi sono pieni e tante persone senza dimora non riescono a trovare un letto d’inverno, quando fuori ci sono venti gradi sotto zero. Molti non hanno uno stipendio sufficientemente decente da permettersi di prendere in affitto un monolocale. Per non parlare, poi, di chi non riesce nemmeno a procurarsi il cibo e a soddisfare altre necessità più basilari.
In alcune province le droghe sono state depenalizzate e intanto si continua a morire di overdose, tanto che questa è diventata una delle emergenze sanitarie più gravi della storia recente del Canada. Dal 2016, si dice che più di 50.000 persone siano morte di droga. Ma questi sono solo i numeri ufficiali. Addirittura più cupa è la situazione per quanto riguarda l’eutanasia: sono 60.000 le persone uccise legalmente nel paese.
Il Canada ha una pessima reputazione in tutto il mondo quando si parla di eutanasia, ma qui la cosa non sembra turbare più di tanto. Stanno persino pensando di estendere questa pratica alle persone con disabilità. Su questo, la provincia del Québec ha già fatto il primo passo.
Per noi questi fatti non sono numeri o semplici dati. Sono storie di persone che conosciamo e che incontriamo ogni giorno. Alcune le accogliamo nella nostra casa, per altre chiamiamo l’ambulanza alle 5 del mattino quando vanno in overdose nel bagno del nostro centro di accoglienza. A volte, una di loro si salva, mentre tante altre volte qualcuno muore.
Tuttavia, la logica del Vangelo ci dice che c’è una buona notizia. Ci deve essere. Ma dove la troviamo? Come possiamo condividerla? È cambiato qualcosa o qualcosa sta per cambiare?
Forse la storia di Tara — che ci ha raccontato qualcuno che la conosceva bene — può aiutarci a trovare alcune risposte a queste domande.
Tara ha bussato alla porta della nostra chiesa quando era molto malata. Andava a fare la dialisi tre volte a settimana. Quando saltava una seduta o beveva troppi liquidi, lo si notava immediatamente. Glielo leggevi in faccia. Il suo corpo si gonfiava. Sembrava tutta un’altra persona. Era quasi irriconoscibile. Lei lo sapeva. Da giovane era molto bella.
Ma questo non era il suo unico problema. Aveva anche una grave dipendenza che alla fine le ha portato via la vita. In ospedale le era stato detto che non avrebbe potuto ottenere un trapianto di rene perché faceva uso di droghe. Tara era relativamente giovane, aveva circa 40 anni, ma il sistema sanitario ha le sue priorità e non offre molta speranza a chi conduce una vita di «bassa qualità».
Era doloroso vedere Tara quando veniva alla missione. A volte, arrivava la mattina presto e dormiva sul pavimento, riposandosi dopo una notte insonne. Altre volte non riusciva quasi a mangiare o a camminare tanto che qualche volontario doveva aiutarla ad attraversare la strada. Aveva perso ogni speranza e la sua vita si spegneva lentamente. Ricordo di aver pensato a volte che non la si poteva biasimare per il fatto di fare uso di droghe mentre aspettava la morte, senza speranza.
Perdemmo le tracce di Tara quando lasciò l’ospedale St. Michael. Sapemmo poi che era stata trasferita all’ospedale East General, dove, come qualcuno dice, le persone vanno per prepararsi a qualcosa di più grande della vita, per prepararsi a morire.
Tuttavia, per sua fortuna, anche da lì fu dimessa. La chiamammo sul cellulare e lei promise che sarebbe venuta a trovarci. Sarebbe stato difficile. Doveva fare la dialisi e, inoltre, aveva una brutta ferita alla gamba, tanto che i medici le avevano detto che avrebbero potuto amputargliela. Era la seconda volta in poche settimane che si feriva. E noi non sapevamo se l’avremmo più rivista.
È così che si costruisce una comunità a Toronto, con la speranza che un giorno saremo tutti insieme. Quel giorno non è ancora arrivato, ma noi non ci scoraggiamo.
L’ultima volta che ho visto Tara è stata in ospedale, quando mi chiese un rosario. Non le avevano dato una stanza con la televisione e l’idea di pregare le sembrava utile. Era anche visibilmente colpita da qualcosa che era successo alla sua gamba dopo il primo infortunio. «È guarita in fretta e in un modo che non avevo mai visto prima», disse. Sapeva come guarivano le ferite, data la sua esperienza con il diabete. «È guarita dopo che il prete vi ha messo sopra qualcosa. È guarita completamente e in modo diverso».
Ricordai allora che la sua gamba era stata unta con la mirra di San Demetrio, un olio profumato che conserviamo sull’altare da 20 anni e che ci è stato portato da Salonicco dove sgorgò dal corpo del santo. È ancora fragrante come il giorno in cui lo abbiamo ricevuto.
Dopo quell’episodio, Tara tornò alla missione camminando quasi normalmente. Mi chiedevo se fosse merito della mirra, ma in quel momento non volevo fare troppe domande, per non farle pensare che cercassi un miracolo. Era davvero malata di diabete e di altre gravi patologie e io come avrei potuto parlare di un miracolo che guarisce una parte del corpo ma non tutto il resto? «Beh, questo è un miracolo da missione, dove nulla è perfetto», pensai.
In realtà, il grande miracolo che Tara aveva ricevuto era il dono della presenza di Dio nella sua vita, in un modo che non poteva ignorare e al quale non poteva resistere.
Aveva molte malattie non guarite, fisiche o mentali, tante perdite, relazioni che avevano bisogno di guarigione. Ma in tutto questo abbandono di una vita che si sgretola, Dio le aveva guarito la gamba ed era diventato il centro della sua esistenza. E lo si vedeva in lei, proprio in quel momento. Un cambiamento nel cuore.
In un mondo che crolla, ricevette il dono perfetto: il segno di un regno diverso dove cominciò a dimorare, pur essendo terribilmente malata.
Quando era in ospedale, varie persone andavano a visitarla. Durante una di quelle visite volle prima parlare di preghiera e poi trovare una guida. Ricordo quella stanza d’ospedale. Era piena di preghiera e la speranza era presente. Sapeva che sarebbe morta. Si stava preparando e aveva un tipo di speranza diversa che solo la preghiera può rivelare. Questa speranza è rimasta con noi anche quando abbiamo avuto la notizia della sua morte. Il cambiamento nel suo cuore era stato reale e aveva toccato anche il nostro.
Abbiamo saputo della morte di Tara durante l’estate. Abbiamo pregato per lei e abbiamo sentito la presenza della Grazia nella cappella del nostro rifugio. Qualcosa del suo cuore è rimasto con noi.
Dobbiamo pregare per vedere la speranza. E quando la vediamo, non viene mai da noi, ma da coloro le cui vite pensavamo fossero senza speranza.
In un tempo così autodistruttivo il cuore è il grembo dove la speranza si rinnova. Il cuore di una persona povera.
* Sacerdote ortodosso - St. John
the Compassionate Mission, Toronto