
di Mario Guerra
Maria ha 79 anni. Il servizio domiciliare del portierato sociale al iii Municipio di Roma l’ha conosciuta un anno fa. Andiamo da lei tutte le settimane. Prima Massimo, poi Ilaria, due educatori che lavorano con me.
Maria e lo spazio vuoto
lasciato dal suo Giancarlo
Maria ha perso il marito, Giancarlo di 82 anni, poche settimane fa. Era caduto in bagno e si era rotto il femore. L’arrivo dell’ambulanza e il successivo ricovero in ospedale non è stato il preludio di un inizio di guarigione. Al trauma della rottura si è aggiunto il trauma dell’allontanamento forzato dallo spazio abitativo, dall’amore della sua vita, Maria, che lo accudiva e sosteneva ogni giorno, dai suoi libri, dalle foto di famiglia che gli ricordavano da dove era venuto, come si era formato, i luoghi dove aveva vissuto. Il reparto d’ospedale ha rappresentato per lui una struttura segregativa che lo costringeva nella zona fredda dell’isolamento. Non più il tepore dell’affetto, ma il gelo dell’indifferenza. Non era più Giancarlo, ma il “paziente del letto 4”. L’identità letteralmente capovolta. Il mondo della “malattia” aveva cancellato l’orizzonte di senso che rappresentava la sua vita. E di conseguenza la persona che amava e le cose, gli oggetti, i dischi di jazz non appartenevano più al suo esistere quotidiano.
Giancarlo, dall’istante del ricovero, ha perso ogni lucida coerenza di pensiero, chiuso in un tunnel sconclusionato e confuso di parole maledette gridate contro tutto e tutti. Lo legavano al letto per evitare che si staccasse le flebo. Reagiva ad un mondo che interpretava ostile. L’unico figlio che avevano non era stato molto presente nella vita dei genitori.
Maria e Giancarlo, prima di conoscere il portierato, per età e condizioni fisiche generali, erano persone particolarmente fragili. L’attivazione dell’assistenza domiciliare, da parte dei servizi sociali, ha mitigato solo in parte il loro stato di isolamento.
Dopo venti giorni di ricovero Giancarlo è deceduto. Non so come sia potuto accadere, cosa possa accadere nella mente di una persona che viene necessariamente “deportata” in un luogo di cura per essere assistita, quando tutto ciò che lo circonda è disumanizzante.
Maria ha perso il “corpo” del suo unico amore, che le stava sempre accanto, le preparava il caffè al mattino presto e le sorrideva quando il sole faceva capolino dalla finestra della cucina. Di colpo è stata scaraventata violentemente in uno stato di abbandono. Il condominio del palazzo forse non è venuto a sapere neppure della morte di Giancarlo. Relazioni significative zero, semplici convenevoli nei saluti del mattino o della sera.
Maria porta con sé uno sguardo che cerca sempre qualcosa o qualcuno. D’improvviso si alza come se sentisse una voce. Per poi rimettersi seduta sulla poltrona, con accanto uno spazio vuoto. Mi guarda con una espressione persa nel nulla e mi chiede: «Ce la farò?».
Francesca: un inno alla vita
nonostante tutto
Via Monte Petroso, il cuore del Tufello. Qui abita Francesca, 92 anni. Prima con i genitori e 7 tra sorelle e fratelli. In età adulta è rimasta sola. Rifletto su un dato interessante emerso in questo territorio del iii Municipio, il Tufello. Dopo aver effettuato circa 800 visite condominiali, le famiglie che si sono formate qui negli anni ’50 e ’60 erano nuclei con una prole particolarmente numerosa. Mediamente quattro, cinque figli, ma c’erano famiglie anche con dieci o quindici figli. Negli anni ’70, in questo quadrante arrivò l’eroina. Le conseguenze furono molto simili ad una guerra che non aveva mai fine. Ogni famiglia ebbe almeno due o tre morti di overdose. Ogni famiglia un figlio o due tossici.
La famiglia di Francesca uscì indenne da quella tragedia. Francesca iniziò presto a lavorare in una cooperativa di servizi. Era lei ad occuparsi dei genitori ormai anziani. Il lavoro e l’impegno di cura dei genitori le sottrassero il tempo necessario per frequentare un uomo. Ma questo non la preoccupò mai. Lavorare significava pulire per terra, lucidare, rendere igienicamente compatibili uffici, saloni, stanze dove lavoravano degli impiegati. La paga non era mai abbastanza, ma bisognava tirare avanti.
Oggi una pensione di poche centinaia di euro le garantisce una vita appena decorosa. Ma le conseguenze di quel lavoro impegnativo e usurante le hanno lasciato come ricordo una difficoltà motoria nella semplice deambulazione, problemi cardiaci e respiratori. Se il corpo risente ancora di queste complicanze, la mente di Francesca è qualcosa di straordinario. Lucida, sempre congrua nei ragionamenti, un inno alla vita. Il desiderio di rendere sempre la vita viva la porta a donare sorrisi agli altri, in ogni occasione. La tenerezza dello sguardo mi aiuta a contrarre con più umanità il mio cuore.
Diciamo che le sorelle e i fratelli ancora in vita, ne ha persi tre, non sono particolarmente presenti. Anche i nipoti, ne ha quattro, non hanno una frequentazione assidua di casa sua. A darle una mano c’è Mara, una donna di 52 anni nipote di una cara amica di Francesca, Anna. Abitano una di fronte all’altra. Mara si divide seguendo Francesca ed Anna negli impegni giornalieri. Noi del portierato facciamo il possibile. Abbiamo accompagnato Francesca al Policlinico Umberto i, ambulatorio di geriatria, per essere visitata. È invalida al 100 per 100, ma non prende un soldo perché le hanno respinto la domanda per l’“accompagno”. Ora con l’avvocato del portierato faremo ricorso, allegando una corposa cartella clinica. Tutto in pochi giorni. Diversamente Francesca non avrebbe ricevuto alcun aiuto. Francesca non ha nessuna rete sociale.
Per una comunità
responsabile
L’idea del portierato nacque nella mente di un gruppo di donne dell’associazione Grande come una Città che si sono ispirate all’esperienza delle Microaree di Trieste. Non è casuale che siano state donne le protagoniste della realizzazione di questo progetto. Così come sono le donne dell’Associazione Anteas Roma a gestire oggi il portierato del Tufello. Anche qui i maggiori sostenitori del progetto sono l’assessora e l’assistente sociale del iii Municipio. Le donne hanno dimostrato coraggio, senso di abnegazione, una dedizione assoluta al bene superiore, alla salute collettiva di un territorio. La Caritas è partner del portierato curando l’assistenza domiciliare e le visite sanitarie a domicilio.
Una città che cura vuol dire identificare delle buone pratiche, anche minime, che possano estendere la democrazia del quotidiano, come la tutela dei diritti, e realizzare dei laboratori di cittadinanza nella manutenzione dei beni comuni. Manutenzione. Rifletto su questa parola e mi chiedo: qual è la manutenzione di un essere umano? Cosa significa combinare una serie di azioni che possano garantire il buon funzionamento di tutti gli organi sensoriali di una persona in un lasso di tempo più o meno lungo?
Ma prima è utile un preambolo e chiedersi cosa voglia dire nascere in un territorio come il Tufello, un quadrante storicamente deprivato sul piano sociale e culturale. La realtà è quella di una periferia che, negli anni ’70 e oltre, fu invasa dall’eroina che ha dato vita a un sistema economico che ha reso ricche poche famiglie e distrutto la vita di tantissime altre. La povertà si è trasmessa di generazione in generazione: povertà scolastica, povertà di redditi. E con livelli di istruzione bassi, con livelli di risorse economiche inadeguate anche i rischi relativi alla salute oggi incidono maggiormente. Le aspettative di vita di una persona anziana sono sensibilmente minori rispetto ad una zona dello stesso municipio dove l’indice di sviluppo è più elevato: difficoltà di accedere al sistema sanitario, mancanza di risorse economiche per le visite specialistiche.
Qui si apre un capitolo enorme al quale il portierato sta cercando di dare una risposta, promuovendo la medicina nel territorio, nei lotti delle case popolari, nei condomini. Ma non possiamo pensare di avvalerci degli strumenti tradizionali e di protocolli e schemi precostituiti. Questo può andar bene in ambito ospedaliero, ma non funziona nell’intervento domiciliare, per offrire alternative al ricovero e pensare a rafforzare la prevenzione.
Ho incontrato tanti girando per i condomini. In ogni casa popolare di cinque piani, due famiglie per piano, quattro persone su dieci hanno oltre settant’anni. Al terzo piano di un palazzo dell’Ater ho incontrato una signora di 79 anni che era costretta a sorreggersi al deambulatore per spostarsi in casa. Il palazzo era privo di ascensore e lei era ristretta nello spazio abitativo da più di tre anni. Arresti domiciliari senza alcuna causa, se non quella di essere povera e sola. Rifiutò con garbo il mio aiuto perché diceva che doveva essere lo Stato ad occuparsi della sua difficoltà.
Sopra la porta di ingresso di molti appartamenti sono stati installati dagli stessi inquilini dei sistemi di videosorveglianza. Le persone hanno paura. Quarant’anni fa, nonostante quella spaventosa diffusione di eroina, esisteva un embrione di comunità e una grande attenzione per le persone fragili. In tutti questi mesi di lavoro abbiamo camminato in lungo e in largo attraver-sando questo territorio. Ogni vincolo di comunità è venuto meno. Le persone che abbiamo incontrato, soprattutto anziani, sentono di essere sole. Ma è un sentire ormai logorato: non ci si fa più caso. È come la goccia d’acqua che perde da non si sa quanto tempo dal tubo del lavello della cucina e nessuno l’aggiusta. Continua ad uscire acqua, dagli umani non escono più parole, parole di saluto, parole che accolgono, parole sorridenti, altre più serie, parole di commiato. E quando manca la parola manca il riconoscimento dell’altro. Dovremmo pensare la parola come presidio medico, come misura sanitaria. Non c’è salute se le cose non trovano salvezza nelle parole. Le parole curano e delle parole dobbiamo prenderci cura.