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DONNE CHIESA MONDO

1915-18: le suore infermiere degli ospedali militari

Quell’ esercito di carità

 Quell’ esercito di carità  DCM-002
01 febbraio 2025

Fermare le armi, prima di ridurre il mondo ad «ospedale e ossario» Era il Natale 1915. La Grande guerra divampava da diciotto mesi e Papa Benedetto xv lanciava i suoi appelli alla pace. Ciò che il mondo ancora ignorava per la censura di guerra, quanto sangue si stava versando e quanti feriti gravissimi erano negli ospedali militari, era chiarissimo alla Santa Sede. Il Pontefice sapeva di che cosa parlava perché lui stesso aveva voluto un ospedale per i feriti di guerra in casa sua, offrendo gli spazi dell’Ospizio pontificio di Santa Marta, in Vaticano. Gli stessi che oggi sono frequentati da Papa Francesco, dall’agosto 1915 ospitavano centinaia di soldati italiani feriti gravemente. Vi operavano i medici e gli infermieri dell’Ordine di Malta e le Figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli, dalle grandi cuffie bianche e il grembiule grigio.

Ma quel drappello di suore erano parte di un gigantesco sforzo corale. Decine di migliaia di religiose nei più diversi Paesi europei erano state sollecitate ad occuparsi dei feriti di guerra. È sufficiente un veloce giro su Internet per vedere tantissime foto d’epoca. Ci sono le suore tedesche che partecipano ai treni-ospedale dell’Ordine di Malta oppure le agostiniane francesi, protagoniste di una grande mostra del museo di Meaux, 50 km da Parigi, dedicata alle “Infermiere Eroine silenziose della Grande Guerra”, che ha dato largo spazio in particolare al coraggio di suor Sainte-Marthe che non si risparmiò nel suo convento requisito per diventare ospedale militare, fronteggiò un’epidemia di tifo che dilagava in corsia, e morì dopo la guerra, sfibrata dalla fatica.

In Italia tra le prime furono coinvolte le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. All’inizio della guerra, la superiora generale, madre Ildegarde Zmiglio, in una lettera circolare del 6 maggio 1915, aveva scritto: «Coraggio, mie buone figlie, non vi spaventino i sacrifizi che questa missione richiede da voi, compitela… senza ascoltare la natura, che certo nulla può trovare di piacevole in tal sorta di servizio che vi porta a vivere di continuo fra i morti e i moribondi».

A raccontarci il loro impegno c’è anche un nuovissimo podcast in quattro puntate (https://www.suoredellacarita.org/podcast-servire-la-vita-dove-la-vita-e-sconfitta/) intitolato “Servire la vita, dove la vita è sconfitta”. Si riporta una lettera drammatica di suor Blandina Protani, che era su uno dei primi treni-ospedale: «Fa pena veder tornare quei bravi giovani dal campo di battaglia malati, ma i feriti straziano il cuore… ne abbiamo avuti che facevano una pena indicibile. Nel ricevere un povero Capitano a cui una palla aveva trapassato la spalla da parte a parte, dovetti farmi tanta violenza per vincermi». In una relazione si legge: «Ricevemmo, a Calalzo Pieve di Cadore, un soldato mutilato di ambo gli arti. Di lui non rimaneva che il tronco. Era giovanissimo, aveva la mamma e la Sposa, un lombardo, e si mostrava tranquillo, gratissimo delle cure che riceveva. Pensare che aveva bisogno di tutto. Ci interessammo di lui: sapemmo che morì dopo un mese».

Esse, come tutte, dovettero vedere da vicino la sofferenza, il dolore, e la disperazione dei giovani mandati al macello, che invece la propaganda di guerra nascondeva con cura.

Don Giancarlo Rocca ha studiato l’apporto di religiosi e religiose alla Grande guerra. «Non sappiamo – scrive – quante siano state, perché sino ad oggi, al contrario di quanto avvenuto per i religiosi, non sono state fatte indagini statistiche al riguardo… Se si considera che nel censimento del 1911 le religiose in Italia erano circa 45.000, non sembra azzardato ritenere che almeno un terzo di esse fosse impegnato nei servizi di guerra. Di fatto prestarono servizio in zona di guerra, in ospedali da campo, in ospedali di riserva, in ospedali territoriali, in ospedali contumaciali, in ambulanze, in treni ospedali. Con il variare della linea del fronte, le religiose di uno stesso Istituto si trovarono a volte sotto l’autorità austriaca e a volte sotto quella italiana senza grandi difficoltà, perché entrambe le autorità ritenevano normale il loro servizio ospedaliero e caritativo sui due fronti… Non sappiamo quante religiose siano morte nel corso della guerra, ed esse non sono ricordate nel cimitero di Redipuglia, dedicata alla memoria dei soldati».

Diceva però già nell’agosto 1916 il professor Roncaglia, primario dell’ospedale provinciale di Parma: «In tutti i campi di battaglia le suore assommano a circa 10mila: un esercito di carità».

In generale non erano infermiere diplomate, salvo alcuni casi particolari. Si occupavano della gestione della corsia, del cibo, della pulizia, e del conforto. Tra le più attive ci furono le Ancelle della carità di S. Maria Crocifissa di Rosa, che dal 1905 vantavano una scuola teorico-pratica per infermiere. «La prima guerra mondiale – ha spiegato suor Augusta Nobili – vede coinvolte, per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, oltre settecento Ancelle in ospedali civili e militari, sanatori, preventori, convalescenziari, manicomi”.

Scrive poi Grazia Loparco, suora salesiana e storica, membro del Comitato di direzione di Donne Chiesa Mondo, a proposito dell’impegno delle Figlie di Maria Ausiliatrice: «Già nel 1915 in Piemonte, Lombardia e Veneto, fronti di guerra, non si fanno attendere le richieste negli ospedali militari».

All’epoca in tutta Italia erano 2303 le salesiane professe. «Il Consiglio ispettoriale piemontese, pressato dalle richieste, cede agli ospedali militari personale che all’inizio non ha preparazione specifica per l’assistenza agli infermi, e tuttavia si guadagna la stima sia da parte dei degenti, che dei responsabili».

Anche le suore cappuccine di Madre Rubatto si trovarono in prima linea. In archivio si conserva una lettera di Filomena di san Siro, superiora del gruppo di suore operative a Langoris, indirizzata alla madre generale: «Cara Madre, se si fosse trovata qua il giorno 25 [novembre 1915 n.d.A]! Sarà un giorno per noi memorando! Se avesse sentito che bombardamento… Le granate e gli schioppi si sentivano proprio in direzione del nostro ospedale! Noi già tutte eravamo rassegnate e pronte… solo ci rincresceva e sentivamo il distacco di essere tutte da sole e ciascuna nel nostro reparto, e non poter essere tutte assieme a morire».

La guerra moderna impose una mobilitazione generale che non risparmiò alcuna nicchia della società.

Ricostruisce ancora suor Grazia Loparco: «L’adesione del mondo religioso all’assistenza negli ospedali, dopo qualche incertezza dettata dalla consapevolezza di non avere un’attitudine specifica, è stata larga e costante. Una lettera di suor Claudina Baserga, direttrice a Casale Monferrato, manifesta già nel giugno del ’15 il disagio tra la direttiva della superiora generale di rifiutare l’invito di offrire alcune suore per l’ospedale locale e le pressioni delle autorità civili e militari, deluse dalle prime resistenze delle salesiane “che dicono così patriote”. Rivolgendosi alla vicaria generale, dopo un incontro con le autorità in municipio, suor Baserga indica la prontezza delle suore di San Vincenzo e delle domenicane, concludendo: “Mi pare che anche noi si dovrebbe fare qualche cosa in più”».

In Italia, da parte dei vertici delle congregazioni inizialmente ci fu più di qualche ritrosia perché si veniva da un cinquantennio di “guerra fredda” tra Stato e Chiesa. La Grande guerra che fu un terribile trauma per le società europee, fu l’occasione di un riavvicinamento tra la società e il mondo religioso. Moltissimi non dimenticarono l’aiuto ricevuto dalle suore. Riportiamo dall’archivio delle Figlie di Maria Ausiliatrice, su mille, la lettera di un soldato tornato in famiglia: «Come si scrive a una suora? Madre, sorella, reverenda? Io sarei tentato di scrivere carissima, perché infatti è cara al mio ricordo, ma per non essere sconveniente faccio finta di non averlo detto e non scrivo niente nell’intestazione. Ed ora? Saluti, ringraziamenti. Di più, un sentimento intimo di commozione e di tenerezza. Con Lei saluto e ringrazio le sorelle tutte che con tanto amore e abnegazione compiono l’opera santa».

di Francesco Grignetti
Giornalista «La Stampa»