· Città del Vaticano ·

Il magistero

 Il magistero  QUO-024
30 gennaio 2025

Sabato 25


Non formare cloni ma preti autentici

Affinché il seminario possa dare testimonianza e diventare uno spazio favorevole alla crescita del futuro sacerdote, è importante avere cura della qualità e dell’autenticità delle relazioni umane che vi si vivono, simili a quelle di una famiglia, con tratti di paternità e fraternità.

Il seminarista potrà allora essere sé stesso, senza paura d’essere giudicato in modo arbitrario; essere autentico nei rapporti con gli altri; collaborare pienamente alla propria formazione per scoprire, accompagnato dai formatori, la volontà del Signore per la sua vita e rispondere liberamente.

 È  una grande sfida proporre una formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale a una comunità così diversificata. 

Ecco perché l’attenzione al percorso di ciascuno così come l’accompagnamento personale sono più che mai indispensabili. Ed è importante che le équipes di formazione accettino questa diversità, che sappiano accoglierla e accompagnarla. Non abbiate paura della diversità! 

L’educazione all’accoglienza dell’altro, così com’è, sarà la garanzia, per il futuro, di un presbiterio fraterno e unito nell’essenziale.

L’obiettivo del seminario è chiaro: «formare discepoli missionari “innamorati” del Maestro, pastori “con l’odore delle pecore”, che vivano in mezzo a esse per servirle e portare loro la misericordia di Dio». 

Ciò suppone un certo numero di criteri, sui quali è impossibile transigere, per conferire l’ordinazione. 

Il seminario, tuttavia, non dovrebbe cercare di formare cloni che la pensino tutti allo stesso modo, con gli stessi gusti e le stesse opzioni. 

La grazia del sacramento mette radici in tutto ciò che arricchisce la personalità unica di ciascuno, personalità che deve essere rispettata, per produrre frutti di vari sapori.

Tra i punti ai quali è importante prestare attenzione, vorrei  evidenziarne tre. 

Il primo è aver cura che nel candidato si formi una vera libertà interiore. 

Il secondo riguarda la maturazione nel candidato di un’umanità equilibrata e capace di relazioni umane. 

Il terzo è il deciso orientamento della vocazione sacerdotale alla missione.  

È difficile immaginare una vocazione sacerdotale che non abbia una forte dimensione oblativa, di gratuità e distacco da sé, di sincera umiltà.

(Ai rettori dei Seminari maggiori di Francia )

Tessitori di fraternità

Gesù arriva nella casa delle sue amiche, Marta e Maria, quando il loro fratello Lazzaro è già morto da quattro giorni. 

Ogni speranza sembra ormai perduta, al punto che le prime parole di Marta esprimono il suo dolore insieme al rammarico perché Gesù è arrivato tardi. 

Allo stesso tempo, però, l’arrivo di Gesù accende nel cuore di Marta la luce della speranza e la conduce a una professione di fede. 

Gesù le annuncia la risurrezione dalla morte non soltanto come un evento che si verificherà alla fine dei tempi, ma come qualcosa che accade già nel presente, perché Lui stesso è risurrezione e vita. 

Poi le rivolge una domanda: «Credi questo?». Questo tenero incontro tra Gesù e Marta insegna che, anche nei momenti di desolazione, non siamo soli e possiamo continuare a sperare. 

Gesù dona vita, anche quando sembra che ogni speranza sia svanita.

Dopo una perdita dolorosa, una malattia, una delusione amara, un tradimento subito o altre esperienze difficili, la speranza può vacillare; ma se ciascuno di noi può vivere momenti di disperazione o incontrare persone che hanno perso la speranza, il Vangelo dice che con Gesù la speranza rinasce sempre. 

Impegno e testimonianza

Ci rialza sempre, ci dona la forza di riprendere il cammino, di ricominciare.

La speranza è quella corda alla quale noi siamo aggrappati con l’ancora sulla spiaggia. 

A volte siamo sopraffatti dalla fatica, scoraggiati per i risultati del nostro impegno, ci sembra che anche il dialogo e la collaborazione tra noi siano senza speranza, quasi destinati alla morte e,  ciò, ci fa sperimentare la stessa angoscia di Marta; ma il Signore viene.

Questo messaggio di speranza è al centro del Giubileo e  coincide con  il 1700° anniversario del  Concilio di Nicea. 

[Esso] rappresenta dunque un anno di grazia; rappresenta anche un’opportunità per tutti i cristiani che recitano lo stesso Credo e credono nello stesso Dio: riscopriamo le radici comuni della fede, custodiamo l’unità! 

L’anniversario non deve essere celebrato solo come “memoria storica”, ma anche come impegno a testimoniare la crescente comunione tra  noi. 

Dobbiamo fare in modo di non lasciarcela sfuggire, di costruire legami solidi, di coltivare l’amicizia reciproca, di essere tessitori di comunione e di fraternità.

(Celebrazione dei Secondi Vespri della solennità della Conversione di san Paolo Apostolo a conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani )

Domenica 26


Il male ha i giorni contati

Gesù è la Parola Vivente, in cui tutte le Scritture trovano pieno compimento. 

Anche noi, pieni di stupore, apriamo il cuore e la mente ad ascoltarlo, perché «è Lui che parla quando nella Chiesa si leggono le sacre Scritture». 

In questo atteggiamento di fede gioiosa siamo invitati ad accogliere la profezia antica come uscita dal Cuore di Cristo, soffermandoci sulle cinque azioni che caratterizzano la missione del Messia.

Anzitutto, Egli viene «mandato a portare ai poveri il lieto annuncio». 

E quando Dio regna, l’uomo è salvato. 

La seconda azione è «proclamare ai prigionieri la liberazione». 

Il male ha i giorni contati, perché il futuro è di Dio. 

Con la forza dello Spirito, Gesù redime da ogni colpa e libera il nostro cuore da ogni catena interiore, portando nel mondo il perdono del Padre.

La terza azione, con la quale Gesù compie la profezia, è donare «ai ciechi la vista». 

Il Messia apre gli occhi del cuore, spesso abbagliati dal fascino del potere e dalla vanità: malattie dell’anima, che impediscono di riconoscere la presenza di Dio e rendono invisibili i deboli e i sofferenti. 

La quarta azione è «rimettere in libertà gli oppressi». Nessuna schiavitù resiste all’opera del Messia. 

La quinta azione: Gesù è inviato «a proclamare l’anno di grazia del Signore». 

Il Vangelo è parola di gioia, che  chiama all’accoglienza, alla comunione e al cammino, da pellegrini, verso il Regno di Dio.

Dolore  e morte non avranno l’ultima parola 

Attraverso queste cinque azioni, Gesù ha già compiuto la profezia di Isaia. 

Realizzando la nostra liberazione, ci annuncia che Dio si fa vicino alla nostra povertà, ci redime dal male, illumina i nostri occhi, spezza il giogo delle oppressioni e ci fa entrare nel giubilo di un tempo e di una storia in cui Egli si fa presente, per camminare con noi e condurci alla vita eterna. 

La salvezza che Egli ci dona non è ancora attuata pienamente; e tuttavia guerre, ingiustizie, dolore, morte non avranno l’ultima parola. 

Il Vangelo è infatti parola viva e certa, che mai delude.

(Omelia della Domenica della Parola di Dio - Giubileo del mondo della comunicazione )

Gesù portatore di una salvezza che nessuno può dare

L’Evangelista Luca presenta Gesù nella sinagoga di Nazaret, il paese dove era cresciuto. Gesù legge il passo del profeta Isaia che annuncia la missione evangelizzatrice e liberatrice del Messia e poi, nel silenzio generale, dice: “Oggi questa Scrittura si è realizzata”.

Immaginiamo la sorpresa e lo sconcerto dei concittadini di Gesù, i quali lo conoscevano come il figlio del falegname Giuseppe e non avrebbero mai immaginato che  potesse presentarsi come il Messia. 

Quel giorno, a Nazaret, Gesù pose i suoi interlocutori di fronte alla scelta sulla sua identità e missione. 

L’Evangelista dice che i nazaretani non riuscirono a riconoscere in Gesù il consacrato del Signore. Pensavano di conoscerlo troppo bene e questo, invece di facilitare l’apertura della  mente e del  cuore, li bloccava come un velo che oscura la luce.

Questo avvenimento, con le dovute analogie, succede anche per noi oggi. 

Anche noi siamo interpellati dalla presenza e dalle parole di Gesù; anche noi siamo chiamati a riconoscere in Lui il Figlio di Dio, il nostro Salvatore. 

Ma può capitarci, come allora ai suoi compaesani, di pensare che noi lo conosciamo già, che di Lui sappiamo già tutto, siamo cresciuti con Lui, a scuola, in parrocchia, al catechismo, in un Paese di cultura cattolica. 

Così per noi è una Persona vicina, anzi, “troppo” vicina. 

Proviamo a chiederci: avvertiamo l’autorità unica con cui parla Gesù di Nazaret? Riconosciamo che Lui è portatore di un annuncio di salvezza che nessun altro può darci? E io, mi sento bisognoso di questa salvezza? Sento che anch’io in qualche modo sono povero, prigioniero, cieco, oppresso? Allora, solo allora, “l’anno di grazia” sarà per me!

Vicinanza ai  malati di lebbra 

Si celebra oggi la Giornata mondiale dei malati di lebbra. 

Incoraggio quanti operano in favore dei colpiti da questa malattia a proseguire il loro impegno, aiutando anche chi guarisce a reinserirsi nella società. Non siano emarginati!

Carovana della pace 

Accolgo con gioia voi, ragazzi e ragazze dell’Azione Cattolica, delle parrocchie e delle scuole cattoliche di Roma. 

Siete venuti al termine della “Carovana della Pace”, durante la quale avete riflettuto sulla presenza di Gesù nella vostra vita, testimoniando ai vostri coetanei la bellezza dell’accoglienza e della fraternità. Ascoltiamo questi bravi ragazzi, che vogliono dirci qualche cosa... Adesso lui [il ragazzo che legge] ha detto una parola molto bella [il ragazzo la rilegge: “Così riuscirebbero a far star zitte le armi”]. 

(Angelus in piazza San Pietro)

Lunedì 27


La speranza rende forti nella 

tribolazione Celebriamo la xxxiii Giornata Mondiale del Malato nell’Anno Giubilare 2025, in cui la Chiesa ci invita a farci “pellegrini di speranza”. Ci accompagna la Parola di Dio che, attraverso san Paolo,  dona un messaggio di grande incoraggiamento: «La speranza non delude», anzi, ci rende forti nella tribolazione.

Come rimanere forti, quando siamo toccati da malattie gravi, invalidanti, che magari richiedono cure i cui costi sono al di là delle nostre possibilità? Come farlo quando, oltre alla nostra sofferenza, vediamo quella di chi ci vuole bene e, pur standoci vicino, si sente impotente ad aiutarci? 

In  queste circostanze sentiamo il bisogno di un sostegno più grande di noi: ci serve l’aiuto di Dio, della sua grazia, della sua Provvidenza, di quella forza che è dono del suo Spirito.

Nel tempo della malattia se da una parte sentiamo tutta la nostra fragilità di creature — fisica, psicologica e spirituale —, dall’altra facciamo esperienza della vicinanza e della compassione di Dio, che in Gesù ha condiviso le nostre sofferenze. 

Egli non ci abbandona e spesso ci sorprende col dono di una tenacia che non avremmo mai pensato di avere, e che da soli non avremmo mai trovato.

La malattia allora diventa l’occasione di un incontro che ci cambia, la scoperta di una roccia incrollabile a cui scopriamo di poterci ancorare per affrontare le tempeste della vita: un’esperienza che, pur nel sacrificio, ci rende più forti, perché più consapevoli di non essere soli. 

Per questo si dice che il dolore porta sempre con sé un mistero di salvezza, perché fa sperimentare vicina e reale la consolazione che viene da Dio, fino a «conoscere la pienezza del Vangelo con tutte le sue promesse e la sua vita».

I luoghi in cui si soffre sono spesso luoghi di condivisione, in cui ci si arricchisce a vicenda. 

Quante volte, al capezzale di un malato, si impara a sperare! Quante volte, stando vicino a chi soffre, si impara a credere! Quante volte, chinandosi su chi è nel bisogno, si scopre l’amore! 

Luci nel buio della prova

Ci si rende conto, cioè, di essere “angeli” di speranza, messaggeri di Dio, gli uni per gli altri, tutti insieme: malati, medici, infermieri, familiari, amici, sacerdoti, religiosi e religiose; là dove siamo: nelle famiglie, negli ambulatori, nelle case di cura, negli ospedali e nelle cliniche.

Ed è importante saper cogliere la bellezza e la portata di questi incontri di grazia e imparare ad annotarseli nell’anima per non dimenticarli. 

Sono tutte luci di cui fare tesoro che, pur nel buio della prova, non solo danno forza, ma insegnano il gusto vero della vita, nell’amore e nella prossimità.

(Messaggio per la XXXIII Giornata mondiale del malato )

 Scrivere il futuro facendo rete

In che modo seminiamo speranza in mezzo a tanta disperazione che ci tocca e ci interpella? Come curiamo il virus della divisione, che minaccia anche le nostre comunità? La nostra comunicazione è accompagnata dalla preghiera? O finiamo con il comunicare la Chiesa adottando soltanto le regole del marketing aziendale? 

 Tocca a noi scrivere il futuro. 

Comunicazione cristiana è mostrare che il Regno di Dio è vicino: qui, ora, ed è come un miracolo che può essere vissuto da ogni persona, da ogni popolo. 

Un miracolo che va raccontato offrendo le chiavi di lettura per guardare oltre il banale, oltre il male, oltre i pregiudizi, oltre gli stereotipi, oltre sé stessi.  

Il Regno di Dio viene anche attraverso la nostra imperfezione, è bello questo. Il Regno di Dio viene nell’attenzione che riserviamo agli altri, nella cura attenta che mettiamo nel leggere la realtà. Viene nella capacità di vedere e seminare una speranza di bene. E di sconfiggere così il fanatismo disperato.

Questo, che per voi è un servizio istituzionale, è anche vocazione di ogni cristiano, di ogni battezzato. Ogni cristiano è chiamato a vedere e raccontare le storie di bene che un cattivo giornalismo pretende di cancellare dando spazio solo al male. 

Il male esiste, non va nascosto, ma deve smuovere, generare interrogativi e risposte. Per questo, il vostro compito è grande e chiede di uscire da sé stessi, di fare un lavoro “sinfonico”, coinvolgendo tutti, valorizzando anziani e giovani, donne e uomini; con ogni linguaggio, con la parola, l’arte, la musica, la pittura, le immagini. 

Quando noi comunichiamo, noi siamo creatori di linguaggi, di ponti. 

Vi lascio due parole: insieme e rete.

Solo insieme possiamo comunicare la bellezza che abbiamo incontrato, perché ci amiamo gli uni gli altri. 

Comunicare, per noi, non è una tattica, non è una tecnica. Non è ripetere frasi fatte o slogan e neanche limitarsi a scrivere comunicati stampa. 

Rete è la seconda parola. 

Fare rete  è mettere in rete capacità, conoscenze, contributi, per poter informare in maniera adeguata e così essere tutti salvati dal mare della disperazione e della disinformazione. 

La comunicazione cattolica non è qualcosa di separato, non è solo per i cattolici. Non è un recinto dove rinchiudersi, una setta per parlare fra noi, no! 

La comunicazione cattolica è lo spazio aperto di una testimonianza che sa ascoltare e intercettare i segni del Regno. 

È il luogo accogliente di relazioni vere. 

( A vescovi presidenti delle Commissioni di comunicazione e Direttori nazionali degli Uffici di comunicazione )

Martedì 28


Dialogo e diplomazia per costruire la pace

Nella Bolla d’indizione del Giubileo ho indicato una serie di segni e di appelli alla speranza che, a livello sociale e culturale, possiamo accogliere come uomini di buona volontà, riscoprendo questa preziosa virtù nei segni dei tempi che il Signore ci offre, prestando attenzione “al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza”.

Che tale certezza ci spinga a lavorare con impegno affinché questa speranza “si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra”, abbandonando la logica della violenza e assumendo un impegno con il dialogo e l’azione della diplomazia, per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura. 

Un impegno che non avrà successo se non permetterà che ogni uomo, impossibilitato ad aprirsi alla vita con entusiasmo, “a causa dei ritmi di vita frenetici, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie lavorative e tutele sociali adeguate, di modelli sociali in cui a dettare l’agenda è la ricerca del profitto anziché la cura delle relazioni”, possa guardare al futuro con speranza.

Sono degne di lode tutte le iniziative che cercano di aprire cammini “per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio”, qualunque sia la causa, affinché, a partire dalle istituzioni e dalla società nel suo insieme, con la collaborazione di tutti gli agenti sociali, si realizzino iniziative e percorsi che ridiano loro fiducia in sé stessi e nella società. 

I poveri e i malati, i giovani e gli anziani, i migranti e gli sfollati, e anche le persone private della libertà, devono essere al centro delle nostre considerazioni, affinché nessuno resti escluso e tutti vedano rispettata la propria dignità umana. 

Siamo chiamati a vivere nella gratuità fraterna e ogni cosa che facciamo per l’altro ha un impatto su di noi come individui e come società. 

Impariamo questa lezione attraverso l’amore, costruendo la speranza in quell’equilibrio che mira a far sì che tutti abbiano il necessario, insegnandoci a condividere con il povero e ad aprirci con generosa accoglienza all’altro, di modo che sappiamo contribuire con ciò che siamo e ciò che abbiamo al bene comune. 

(Messaggio  ai partecipanti alla Conferenza  «Por el equilibrio del mundo» )

Mercoledì 29


Giuseppe sognatore “giusto”

Continuiamo  a contemplare Gesù nel mistero delle sue origini raccontato dai Vangeli dell’infanzia. Matteo definisce Giuseppe come un uomo «giusto» (zaddiq),  che vive della Legge del Signore, che da essa trae ispirazione in ogni occasione della sua vita. 

Seguendo la Parola di Dio,  agisce ponderatamente: non si lascia sopraffare da sentimenti istintivi e dal timore di accogliere con sé Maria, ma preferisce farsi guidare dalla sapienza divina. 

Giuseppe sogna il miracolo che Dio compie nella vita di Maria, e anche il miracolo che compie nella sua: assumere una paternità capace di custodire, di proteggere e di trasmettere un’eredità materiale e spirituale. 

Non chiede prove ulteriori, si fida. 

Accetta il sogno di Dio sulla sua vita e su quella della sua promessa sposa. 

Così entra nella grazia di chi sa vivere la promessa divina con fede, speranza e amore.

Giuseppe non proferisce parola, ma crede, spera e ama. 

Non si esprime con “parole al vento”, ma con fatti concreti. 

Appartiene alla stirpe di quelli che l’apostolo Giacomo chiama quelli che «mettono in pratica la Parola» , traducendola in fatti, in carne, in vita. 

Chiediamo  al Signore la grazia di ascoltare più di quanto parliamo, la grazia di sognare i sogni di Dio e di accogliere con responsabilità il Cristo che, dal momento del nostro battesimo, vive e cresce nella nostra vita. 

(Udienza generale nell’Aula Paolo vi)