· Città del Vaticano ·

«A Complete Unknown», un film sul capostipite dei cantautori

Dylan
tra genio e profezia

 Dylan  tra genio e profezia  QUO-024
30 gennaio 2025

di Andrea Monda

«Tu suoni musica folk?» gli chiede Pete. «Io suono tutto» gli risponde Bob. Sono in macchina Pete Seeger e Bob Dylan, il primo ha più del doppio dell’età dell’altro, che ha solo vent’anni ed è appena arrivato a New York dal freddo e lontano Minnesota. La radio dell’automobile sta mandando in onda un pezzo di Little Richard e Dylan lo riconosce, ne parla da persona competente, appassionato. Da qui la domanda, a questo punto preoccupata, di Seeger che non viene rassicurato dalla stramba, vaga e ambiziosa risposta.

In realtà è una risposta onesta: Dylan già a vent’anni suonava tutto e suonerà tutto dal 1961 fino ad oggi, 65 anni dopo. E, come sanno i suoi fans, era, da giovanissimo, un ammiratore e imitatore di Little Richard. Per lui il rock è arrivato prima del folk. Ma ora, nel 1961, è il folk ad aver preso dimora nel suo cuore. Il folk che ha un volto e un nome: Woody Guthrie. Anche per questo è venuto a New York, per andare dal grande Woody e lo ha trovato malato e abbandonato in un ospedale. Si è seduto vicino al suo letto e gli ha suonato qualche canzone tra le quali anche quella che gli ha dedicato, Song to Woody. Fin qui tutto vero, nella vera storia di Robert Allen Zimmerman che dal vento e la neve del Minnesota è fuggito a New York. In quella vera storia non c’è in effetti, come invece nel film  il fatto che nell’ospedale abbia incontrato anche il buon Seeger che poi, ben impressionato dalla personalità e dalle canzoni, lo avrebbe portato nella sua casa per ospitarlo. Ma questo è un dettaglio irrilevante; quel dialogo in automobile forse non è realmente accaduto così come ce lo mostra nei primi, intensi, minuti  A Complete Unknown, il bel film di James Mangold appena uscito nei cinema italiani, ma è un dialogo vero, che sintetizza efficacemente la storia che il regista ha voluto raccontare ritagliando 4 anni della lunghissima e non ancora finita carriera musicale del rocker di Duluth. 

E la sintesi è questa: Dylan è un genio che suona tutto, che è ispirato, “attraversato” da tutto e quindi non accetta in alcun modo di essere rinchiuso dentro una etichetta, una formula, una definizione. Il “tradimento” del passaggio dal folk al rock è da leggere al contrario: la vittima del tradimento è Dylan, inchiodato in una casella per lui troppo piccola. È un genio grande questo giovane folletto che piomba nella scena della musica folk del Greenwich Village all’alba degli anni Sessanta e un genio non si spiega. Al massimo si “dispiega”. Il film di Mangold racconta l’inizio di questo dispiegarsi senza dirci nulla della “vita nascosta” di quei primi vent’anni di Dylan quando era solo il figlio di Abraham Zimmerman.  

Non sappiamo nulla quindi della genesi di questo talento straordinario, ma forse non ha senso farsi troppe domande sulle origini, la natura, le ragioni e le motivazioni di un genio artistico, forse l’unico atteggiamento sensato è godersi il fenomeno naturale così come si manifesta. Dylan arriva e domina la scena in ogni minuto del film, pur non facendo né parlando molto, perché il tempo lo passa per lo più a cantare, suonare, scrivere continuamente canzoni in qualsiasi situazione si trovi perché tutto lo ispira, e tutto egli assorbe e restituisce con il suo stile e timbro inconfondibile. 

Mangold taglia, con un’accetta che gronda sangue, solo alcuni snodi tra il 1961 e il 1965 e attraverso il prisma-Dylan lo spettatore vede anche la storia degli Usa e, in controluce, del mondo. Un mondo sull’orlo della fine, della guerra nucleare, dell’apocalisse che Dylan canta — che altro può fare? — nella sua ballata antica e profetica A hard rain is gonna fall. Forse “profeta” è la parola giusta, che ovviamente Dylan non riconoscerebbe e rifiuterebbe, ma la sensazione di fronte a questo film pieno di calore, colore e passione è proprio quella di trovarsi davanti a un visionario che non solo ha accompagnato i processi storici ma in qualche modo li ha intuiti e provocati. La scena clou da questo punto di  vista è quando a Newport Dylan canta l’inedita The times they are a-changin’ e tutto il pubblico è come rapito e comincia a cantare con lui, con emozione, rabbia, potenza. Tutto il pubblico lì a Newport nel 1963 ma anche il pubblico qui a Roma in sala (e si tratta per lo più di giovani) è attraversato da una vibrazione potente ed è sull’orlo di cantare insieme a quell’ometto con la sua voce nasale, ruvida e tagliente. E poi c’è un fatto: i tempi sono davvero cambiati. E questo anche grazie a Dylan e le sue canzoni. Potenza performativa di un piccolo profeta di periferia. Da quella periferia Dylan ha afferrato il mondo e lo ha aiutato a compiere la sua rivoluzione nel cielo musicale. 

Il film inizia con le note di una ballata campagnola di Guthrie che arrivano da un gracchiante grammofono e finisce con un Dylan scatenato rocker con tanto di camicia a pois alla Andy Warhol che urla rabbioso l’invettiva di Like a rolling stone che da decenni vince la classifica della migliore canzone rock di tutti i tempi.

Sono passati solo 4 anni ma si è passati dal muto al sonoro, dal bianco al nero al colore, dai tempi di Omero ai viaggi sulla luna. E Dylan è il traghettatore di questa rapida, convulsa, traversata. Come ha fatto a realizzare una così grande rivoluzione in così poco tempo nessuno lo sa, tantomeno Dylan stesso che rimane a se stesso «a complete unknown». Il genio non si spiega, è un dono misterioso innanzitutto per il destinatario stesso.  

È un film piccolo questo di Mangold, come le poche strade del Greenwich Village di quei pochi anni, ma tocca alcuni temi grandi, come appunto cosa sia il genio artistico. «Tutti mi chiedono da dove arrivano le canzoni» confida Dylan verso la fine del film, quando ha raggiunto forse troppo rapidamente il successo planetario, e aggiunge «ma in realtà vogliono sapere perché arrivano a me e non a loro».  

Dono (ma anche condanna) per l’artista, il genio di Dylan è soprattutto un dono per gli altri, per noi che ancora oggi dopo oltre 60 anni fischiettiamo le sue ballate guardando il mondo forse con uno sguardo più largo e acuto e un cuore più sensibile e, infine, grato e commosso.