· Città del Vaticano ·

Un missionario laico del Pime racconta l’impegno con gli sfollati dal vicino Sudan

Il Ciad tra sfide interne
e accoglienza dei profughi

 Il Ciad tra sfide interne e accoglienza dei profughi  QUO-023
29 gennaio 2025

di Valerio Palombaro

Il Ciad, appena uscito da un delicato processo di transizione democratica, è da mesi in prima linea ad accogliere i flussi dei profughi dal vicino Sudan. Gli sfollati per via della guerra che sta dilaniando dal 2023 il Paese ai confini orientali sono ormai oltre 900.000. Tante persone che devono costruirsi una nuova vita, in un contesto precario. «Come Chiesa del territorio cerchiamo di dare un contributo: il nostro intervento è una piccola goccia, ma insieme alle organizzazioni internazionali offriamo una prospettiva di vita agli sfollati», afferma ai media vaticani fratel Fabio Mussi, missionario laico del Pime ed economo del vicariato apostolico di Mongo, nell’est del Ciad. Un vicariato grande quasi la metà del vasto Paese del Sahel, dove la presenza cristiana è solo dell’1 per cento a differenza delle regioni meridionali dove è circa del 45 per cento. In Ciad, solo da poche settimane, si sono svolte le prime elezioni legislative e locali dopo 13 anni, un passaggio che ha seguito le presidenziali di maggio segnate dalla conferma del presidente Mahamat Idriss Déby Itno, colui che guidava dal 2021 il Consiglio militare di transizione dopo aver “ereditato” il potere da suo padre, Idriss Déby Itno, capo dello Stato per 30 anni ucciso in circostanze poco chiare in uno scontro con gruppi ribelli. Elezioni duramente contestate dall’opposizione che si sono svolte in un contesto geopolitico in mutamento, simboleggiato dal ritiro della “storica” presenza militare francese, e da sfide enormi sul piano della sicurezza: la minaccia terroristica sulle sponde del lago Ciad, nel sud-ovest, e anche l’improvvisa sparatoria di inizio gennaio che ha causato 19 morti al palazzo presidenziale di N’Djamena.

Ma nel vasto est per ampi tratti desertico, l’accoglienza dei profughi rimane una questione pressante. «L’intero confine del Ciad con il Sudan, più di 1.000 km, fa parte del vicariato apostolico di Mongo», spiega il missionario, descrivendo una situazione difficile ma nella quale c’è spazio per la speranza. «All’inizio — dichiara fratel Mussi — al valico di Adré, al confine tra Sudan e Ciad, c’erano flussi di profughi costanti mentre ora gli attraversamenti sono più limitati. Attualmente siamo presenti in due campi profughi della provincia del Ouaddai, a Fachana e Metche, che distano circa 120 chilometri tra loro. A Fachana avevamo già una base come diocesi e come Caritas, mentre a Metche nell’agosto 2024 ci è stato chiesto dalle Nazioni Unite di intervenire perché è un posto isolato e dall’accesso difficile dove non operava nessuna agenzia umanitaria». All’inizio, spiega il missionario, «l’intervento è stato concentrato sull’emergenza e sull’accoglienza, tramite il sostegno immediato con coperte, zanzariere, stuoie ed elementi di prima necessità: in tutto abbiamo dato circa 900 tonnellate di alimenti, soprattutto miglio, olio, sale e fagioli».

Ma 80.000 profughi nel campo di Metche e 40.000 in quello di Fachana sono tanti. «Ci siamo accorti che questo aiuto non garantiva uno sviluppo futuro e quindi abbiamo scelto di puntare i nostri sforzi sulla resilienza», sottolinea fratel Fabio, evidenziando l’azione volta a sostenere in particolare le donne profughe a diventare autonome almeno per l’alimentazione. «Abbiamo trovato delle donne che spontaneamente stavano già iniziando a fare dei piccoli orti con mezzi rudimentali nei campi profughi — racconta fratel Fabio —. Siamo riusciti a trovare degli accordi per 4 anni con i proprietari che lasciano il terreno alle donne sfollate gratuitamente e queste si impegnano a coltivare degli orti. Attraverso un’azione di sensibilizzazione abbiamo potuto organizzare meglio queste donne tramite circa 10 gruppi composti ciascuno da circa 10-15 donne quindi in totale quasi 150 persone». L’aiuto, che arriva in queste zone tramite Caritas e molte diocesi italiane, è anche materiale: costruire una recinzione metallica, avere un pozzo per l’acqua, motopompe per l’irrigazione e delle attrezzature per il lavoro agricolo come zappe, rastrelli, badili, cariole e secchi. «Questo aiuto, ci siamo meravigliati noi stessi, ha potuto far partire un meccanismo di produzione veramente spettacolare, perché queste donne hanno estremo bisogno di produrre per poter mangiare. E c’è stato un passa parola tra le donne nei campi profughi per cui ora abbiamo coinvolto in questi orti 30 gruppi, quindi quasi 400 persone». Si tratta di orti che sorgono vicino al letto di torrenti, in lingua locale Wadi, che durano tre o quattro mesi l’anno ma creano delle falde nel sottosuolo rendendo fertile il terreno. Queste donne attive negli orti, conclude fratel Fabio, «riescono addirittura a vendere quello che producono in più per comprare altri beni necessari a rispondere ai bisogni delle loro famiglie e recuperano in questo modo autonomia e dignità personale».