· Città del Vaticano ·

(s)Punti di vista
Quel bambino sconveniente di Pupi Avati

Lettera sull’amore
«per sempre»

 Lettera sull’amore «per sempre»  QUO-022
28 gennaio 2025

di Andrea Monda

Pupi Avati a 86 anni prende carta e penna e spedisce una lettera al quotidiano “Il Foglio” per dire della sua più recente scoperta: «In questo ultimo quarto della mia vita sto scoprendo di essermi rinnamorato di lei». Lei è «la ragazza che sposai sessant’anni fa», di cui non cita mai il nome e di cui sa che «non leggerà mai questa mia confidenza e quindi mi sento libero di essere assolutamente sincero». Sincero e audace in questa lunga lettera che contiene degli sprazzi, pennellate, di pura poesia. Rivede la strada percorsa negli anni Pupi e gli appare di averlo vissuto «sempre con un senso di attesa infantile. Come se non fosse disdicevole attendersi lo straordinario. Ed è del tutto straordinario il riaffacciarsi di questo sentimento per quella stessa ragazza che corteggiai per anni prima di convincerla, per sfinimento, a sposarmi. Insomma questo sentimento, in questo tratto conclusivo della mia esistenza, si è riappalesato in modo inatteso e probabilmente sconveniente».

È l’aggettivo giusto, sconveniente, oggi si potrebbe dire “corretto”. Pupi ha voluto essere, più precisamente, continuare ad essere, scorretto. Viene in mente G.K.Chesterton e il suo romanzo più riuscito, “Le avventure di un uomo vivo”, in cui il protagonista, Innocenzo Smith compie tutte imprese sconvenienti: viene arrestato e condannato per furto, ma la casa nella quale si era calato furtivamente dal camino era la sua, viene arrestato e condannato per bigamia (siamo negli anni '10 del Novecento) ma la donna da lui sposata è sua moglie... E la “morale” della storia di Innocenzo, così come della lettera di Pupi, è ben riassunta nella spiegazione data da Jessica, 8 anni, alla domanda, sconveniente, su cosa vuol dire “amore”: «Non bisogna mai dire “ti amo” se non è vero. Ma se è vero bisogna dirlo tante volte. Le persone dimenticano».

Quindi, con splendida furia infantile Pupi, superando ogni imbarazzo, si dichiara «convinto che l’amore sfugga alla ragione. L’innamorato ha una sola età, quella dell’adolescenza, quella in cui è al culmine della sua capacità di immaginare. Immaginare che dentro mia moglie, a quel giacimento di bellezza che c’è in lei, ci sia tutta la mia vita, che nel suo sguardo ci sia io a tutte le mie età».

Osa dire parole che oggi suonano bizzarre, come “pudore”, “corpi” e “nudità” e parlare di “declino fisico” e “vergogna”, tutto questo anche per contestare l'affermazione del protagonista di un suo film di tre anni fa (“Lei mi parla ancora”, con Renato Pozzetto) secondo cui “da vecchi non ci si abbraccia più”. E osa addirittura affermare che esiste «qualcosa di più alto» del caso che mette in azione quella «misteriosa energia che ci riconduceva sempre a condividere lo stesso destino». Cita quindi Eliot ma qui forse ci starebbe bene anche Rilke che, a parere di chi scrive, ha intuito meglio di altri l’essenza del mistero dell'amore coniugale: «Questo è il paradosso dell'amore tra l'uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitare capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l'altro è segno».

Ma soprattutto Pupi usa l’espressione oggi più scandalosa: “per sempre”, quelle due parole che i due, lui e lei, pronunciarono insieme «nella Chiesa di San Giuseppe a Bologna il mattino del 27 giugno 1964. E tra le infinite inibizioni che il progresso ci impone, c’è il cancellare quella locuzione avverbiale dal nostro lessico, privando di sacralità ogni nostro agire, ammucchiando confusamente i ruoli e andando addirittura orgogliosi per la quantità di macerie che stiamo lasciando alle spalle, dove il proselitismo laico non fa altro che privare gli ultimi (sì, gli ultimi, quelli del “Discorso della montagna”) della possibilità di essere attesi da un mondo di angeli misericordiosi che li risarciscano delle tante sofferenze patite».

Da questo punto di vista la lettera di Pupi è una risposta «a questo diffuso nichilismo» che privando appunto di sacralità ogni segmento dell’esistenza rinchiude l'umano nel cinismo. «Credo sia giunto il momento», riprende caparbiamente il regista emiliano, «in cui tornare a confidare negli altri, il tempo in cui non si debba avere paura di aprirsi, in un mondo che tuttavia sa ormai premiare solo il cinismo. Credo sia necessario farlo, pur nel rischio del dileggio, ispirati da quelle ineffabili regole di vita del “Discorso della montagna” che ancora oggi sa indicarci il solo percorso per una convivenza possibile a tutti. Senza alcuna eccezione».

Le Beatitudini come bussola della vita in un momento di disorientamento, a cui aggrapparsi per respingere l’offensiva del cinismo dilagante. «Non aver paura di aprirsi», scrive Pupi, riecheggiando più o meno inconsapevolmente le parole del Papa che da quasi dodici anni afferma, contro ogni marea, che una convivenza all’altezza dell'uomo non solo è doverosa ma è anche possibile e quindi ci invita al coraggio di confidare in Colui che pronunciò quel discorso sulla montagna e, di conseguenza, negli altri, tutti nostri fratelli. Solo l’altro può salvarci, “mai senza l'altro” ricordava Michael De Certeau e il finale della lettera scritta nel momento «in cui il cortile della mia infanzia si rabbuia», si dispiega in modo poetico e orante, perché tra preghiera e poesia il passo è breve: «Oggi vorrei che a mia moglie piacesse la mia vita, vorrei la trovasse ardita, coraggiosa, imprevedibile, mai rassegnata. Vorrei così che si rinnamorasse di me, come io in questo tramonto, mi sto rinnamorando di lei. E vorrei soprattutto che in questo lungo e insidioso nostro percorso di insofferenze e gioie, quel misterioso “per sempre” si avverasse».

Ha preso carta e penna Pupi e ha scritto con il piglio di un bambino impenitente, spalancando il suo cuore, e oggi può dire quello che 70 anni fa scrisse J.R.R.Tolkien all’amico gesuita Robert Murray confidandogli il tremore per l’uscita del suo capolavoro: «Tremo all'idea della pubblicazione, perché sarà ̀ impossibile non fare caso a ciò che sarà detto. Ho esposto il mio cuore, affinché lo colpiscano». Di questo coraggio gliene siamo grati.