· Città del Vaticano ·

Nel racconto di uno scampato alla deportazione

Il bene che sopravvive
nel male

 Il bene che sopravvive  nel male  QUO-021
27 gennaio 2025

«Nonostante tutto continuo a credere nell’intima bontà delle persone», questa riflessione di Anne Frank, contenuta nel suo diario ci ricorda che la luce del bene e della speranza può illuminare anche i frangenti più bui della storia. Coltivare la memoria, in occasione del Giorno dedicato alle vittime della Shoah, permette di conoscere le indicibili violenze che portarono allo sterminio di sei milioni di persone, in gran parte di religione ebraica. L’indagine storiografica consente inoltre di indagare l’humus ideologico, in cui è cresciuto l’odio sprigionato dai nazisti, affinché non si ripetano le tragedie del Novecento. D’altra parte, però, un antidoto altrettanto forte contro l’indifferenza sta nel tramandare le storie di chi ha scelto consapevolmente di operare per il bene, a rischio della propria vita, per salvare anche una sola persona. Non si tratta di eroi ma di persone umili che hanno avuto il coraggio di sfidare il male.

«L’intima bontà delle persone», percepita da Anna Frank emerge in tante drammatiche vicende legate alla Shoah, in cui è quasi sempre possibile rintracciare un brandello di umanità pronta a sacrificarsi per il prossimo. Non fa eccezione il rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, a seguito del quale oltre 1200 ebrei furono deportati nei campi di concentramento tedeschi. Per questo motivo abbiamo raccolto la testimonianza di Emanuele di Porto, ebreo romano, classe 1931, che, quella mattina del 16 ottobre, è stato protagonista di drammatici avvenimenti che hanno visto intrecciarsi tragedia e salvezza. La vita di un adolescente scampata alla ferocia dei nazisti grazie alla forza e la caparbietà di una madre e il coraggio di un gruppo di tranvieri.

Appena dodicenne, all’alba di quel 16 ottobre, Emanuele vide la mamma uscire di casa per avvertire il marito, che lavorava alla stazione, che nel ghetto erano arrivati i tedeschi. Sulla strada del rientro, mamma Virginia viene fermata e caricata su una camionetta dai nazisti. Emanuele vede la scena dalla finestra e d’istinto corre giù, «nella mia testa pensavo di salvarla» ci dice con gli occhi lucidi. Un soldato lo vede e fa salire sul camion anche lui ma Virginia riesce e spingerlo giù e poi convince i militari che quel ragazzino non è un ebreo. Compiendo un ultimo gesto di altruismo, questa giovane mamma di sei figli prende la tessera del pane, ci scrive sopra di consegnarla alla famiglia Di Porto, e la getta dalla camionetta. Qualcuno, giorni dopo, porterà al marito il prezioso documento.

Intanto Emanuele, dopo il blitz dei nazisti, inizia a camminare per uscire dal ghetto, arriva in piazza Monte Savello dove all’epoca c’era il capolinea dei tram e sale sul primo che trova, la “circolare”. «Sono ebreo, i tedeschi mi cercano, ho detto al bigliettaio che mi ha protetto e dato il suo pranzo», così Emanuele racconta l’incontro con il primo tranviere che poi lo lascia in “custodia” ai colleghi del turno successivo, una catena di solidarietà e coraggio durata due notti e tre giorni, finché un altro ebreo tranviere non lo trova casualmente nel deposito della Prenestina e lo avvisa che suo padre e i suoi fratelli sono ancora vivi e lo cercano. «Mi hanno salvato la vita rischiando la loro» sottolinea Emanuele, che si definisce uno «che non mai stato bambino e che non sarà mai un vecchio», perché nel suo cuore, il tempo s’è fermato.

Emanuele non ha mai coltivato il sentimento del rancore e sostiene di aver trovato «il buono e il cattivo dappertutto», «non provo odio — spiega — in realtà fino a pochi anni fa non mi ero nemmeno reso conto che la mia storia fosse importante, se ci rifletto sono stato solo fortunato ad aver incontrato persone giuste, che mi hanno salvato la vita».

di Marco Guerra