· Città del Vaticano ·

Il Giubileo del mondo della comunicazione
Lo scrittore e co-fondatore della rete «Narrative 4»

Un pellegrinaggio
di riparazione

 Un pellegrinaggio di riparazione  QUO-020
25 gennaio 2025

di Colum McCann*

Circa cento anni fa, si svolse un intenso scambio epistolare tra Albert Einstein e Sigmund Freud. Einstein, «il padre della teoria della relatività», era alla ricerca di una Teoria del Tutto; mentre Freud, noto come il «padre della psicoanalisi», si dedicava all’indagine della mente e del corpo umano.

Entrambe le figure erano intellettuali di riferimento del loro tempo, ma vivevano in un’epoca gravata da ombre profonde. L’Europa stava cercando di risollevarsi dalla devastazione di una guerra mondiale e, sebbene nessuno dei due uomini potesse saperlo con certezza, il mondo sembrava avvicinarsi pericolosamente all’orlo di un nuovo disastro.

Einstein, angosciato dalla propensione dell’umanità al conflitto, pose a Freud una domanda cruciale. Gli scrisse chiedendo se ritenesse possibile «indirizzare lo sviluppo psicologico dell’umanità in modo da renderla immune alle psicosi di odio e distruzione, liberando così gli uomini dalla fatalità della guerra».

Era un quesito audace e visionario: come avremmo potuto salvare la civiltà dalle macerie della guerra e, magari, coltivare l’idea di una pace mondiale?

La risposta di Freud, benché ponderata, fu tutt’altro che confortante. Espresse il suo rammarico, spiegando che per tutta la vita aveva rivelato verità difficili da accettare, e questa non faceva eccezione. A suo giudizio, le possibilità che l’umanità riuscisse a vincere i grandi mali della guerra erano estremamente ridotte. Freud sosteneva che l’umanità fosse dominata da un istinto innato verso l’odio e la distruzione che, secondo lui, sarebbe stato impossibile sradicare del tutto.

Eppure, nella sua analisi lasciò intravedere un barlume di speranza. Porre fine alla guerra potrebbe essere un ideale irrealizzabile, ma opporvisi e lottare per la pace e la giustizia rimangono mete accessibili. «Qualsiasi cosa» osservò, «che favorisca legami emotivi tra gli esseri umani deve per forza costruire un freno alla guerra». Freud indicava che l’umanità avrebbe dovuto aspirare alla creazione di «una comunità di sentimento» e «una mitologia delle pulsioni».

Una comunità di sentimento. Una mitologia delle pulsioni... o, come potremmo più semplicemente definirla oggi: una storia, una parabola. Stiamo vivendo un’epoca straordinariamente umana e al contempo profondamente disumana. Da un lato, abbiamo raggiunto traguardi spettacolari nella scienza, nella medicina, nell’arte e nella tecnologia. Siamo in grado di connetterci istantaneamente gli uni con gli altri, di cogliere le sfumature delle vite altrui anche a grandi distanze. I nostri telefoni funzionano, i nostri interruttori rispondono, dai nostri rubinetti scorre l’acqua. I nostri satelliti orbitano. Le nostre medicine curano. Le macchine della nostra esistenza pulsano a un ritmo ininterrotto.

Eppure, nello stesso momento, questo progresso è accompagnato da un’epidemia di solitudine e isolamento. Spesso scegliamo di non ascoltarci. Chiudiamo le tende. Sigilliamo le finestre. Innalziamo barriere. Ci rifiutiamo di attraversare la strada per tendere una mano. Restiamo ancorati ai nostri angusti canali di certezze. Ci rifugiamo nel conforto impersonale dei nostri dispositivi, mentre gli spazi minuscoli che ci separano si dilatano sempre più con il trascorrere di ogni singolo istante.

La tensione cresce. Si tende alle estremità, si tende... si tende... e si tende... finché, alla fine, avviene la rottura. I tempi si spezzano.

Quasi un secolo dopo lo scambio epistolare tra Einstein e Freud, ci troviamo ancora una volta a fare i conti con le stesse domande fondamentali: Come possiamo prevenire le guerre che minacciano di annientarci? Come possiamo contrastare gli effetti devastanti del cambiamento climatico? Come possiamo gestire le immense pressioni geografiche e sociali legate alla migrazione? Come possiamo affrontare le complesse questioni di identità e appartenenza? Come possiamo imparare a riconoscerci e comprenderci l’un l’altro, nonostante le crescenti divisioni? E, soprattutto, come possiamo mettere al servizio della comunicazione e della comprensione reciproca la nostra indiscutibile genialità: la tecnologia, la medicina, l’intelligenza artificiale, la fede?

Se il mondo è fatto di molecole e atomi, è anche fatto di storie.

La distanza più breve tra noi non si misura in millimetri né un micrometri: è una storia. È attraverso le storie che ci connettiamo davvero. Le nostre vite si intrecciano. Le nostre idee risuonano. Ci alimentiamo reciprocamente. Creiamo nuova energia. I quark delle nostre esperienze si combinano fra loro per formare nuovi mattoni della realtà. Lanciamo una rete che abbraccia una comprensione molto più ampia, dando al mondo una struttura più profonda. Le storie contano. Hanno il potere di cambiare il corso della Storia. Possono salvarci. Sono la colla che ci tiene uniti: senza storie non possiamo comunicare, e senza comunicazione non siamo nulla.

Questo è ancora più vero quando ci prendiamo il tempo di comprendere le storie di chi sembra diverso o lontano da noi. Ci fermiamo. Ascoltiamo. Cresciamo, spingendoci oltre noi stessi. Il mondo, in fondo, è fatto delle storie degli altri, persino —e forse soprattutto — di quelli che non conosciamo, o che non abbiamo ancora avuto modo di conoscere.

Chi può negare l’umanità di una persona dopo aver ascoltato la sua storia? Chi può lanciare un missile su un mercato dopo aver conosciuto la storia della donna che gestisce il banco della frutta? Chi può tollerare che i propri leader blocchino un camion carico di cibo di emergenza in una zona di guerra, dopo aver sentito la storia di un bambino che sta morendo di fame, al freddo e al buio? Chi può avere il coraggio di chiudere il cancello di confine in faccia a un ragazzo in sedia a rotelle che sta viaggiando per ricevere un trattamento salvavita?

Poniamoci questa domanda: Chi? Chi? Chi? E poi, prendiamoci un momento per riflettere sulla risposta. La triste e brutale verità è che, nel mondo di oggi, un numero sempre maggiore di noi può farlo.

L’essenza del nostro attuale dilemma non risiede tanto nel silenzio, quanto nell’atto di zittire. Quando ci rifiutiamo di ascoltare le storie degli altri o, più dolorosamente, quando impediamo loro di raccontarle, o ancora peggio, quando cancelliamo del tutto quelle loro storie, il mondo si riduce a uno spettacolo di meschinità. Il nostro rifiuto di andare oltre noi stessi — o almeno oltre chi non ci somiglia, chi non parla come noi, chi non vota come noi — è il nucleo della nostra possibile rovina. Questa chiusura pericolosa ha il potere di annientarci. Come un’arteria ostruita, blocca il flusso vitale della nostra umanità. Il cuore si ferma. Non ci resta che confinarci nella prigione del nostro ego. Non riusciamo più ad amare il prossimo, perché abbiamo ridotto il concetto di «prossimo» alla nostra immagine riflessa. E quando non vediamo altro prossimo che noi stessi, perdiamo ogni significato che vada oltre il nostro sguardo solipsistico.

Chi siamo se siamo solo noi stessi? Diventiamo il vuoto che tanto temiamo. Consentiamo che si compiano grandi crimini: la distruzione dell’ambiente, l’annientamento del nostro prossimo, la perpetuazione della povertà. Ci condanniamo alla perdita di significato.

Se noi — come governo, azienda, chiesa o comunità — possiamo negare a un’altra persona la sua storia, possiamo anche negarle la sua stessa esistenza. Questo è uno strumento di potere subdolo e devastante. Semina la paura. Alimenta l’isolamento. Disumanizza. La paura vende. L’ignoranza vende. E l’odio, nato dalla paura e dall’ignoranza, guadagna terreno. Le menzogne si moltiplicano. I pettegolezzi si diffondono. Le false narrazioni si radicano. Ma una storia negata non può essere compensata da una menzogna raccontata. È qui che entra in gioco il disequilibrio di potere. Il potere sa bene che se controlli — e quindi limiti — le storie degli altri, controlli tutto, persino le persone stesse. Le storie autentiche degli altri — complesse, contraddittorie e profondamente umane — vengono cancellate. La verità viene imprigionata, messa in catene e ridotta al silenzio.

Senza una storia, la presenza e persino l’esistenza degli altri si dissolvono. Questo accade in modo evidente in molti luoghi: Ucraina, Gaza, Sudan. Ma accade anche vicino a noi, nel profondo dei nostri cuori.

L’annientamento delle storie di coloro che percepiamo come nemici — che in realtà non sono altro che il nostro prossimo — rappresenta una delle armi più insidiose al mondo. La nostra incapacità di accedere alle storie degli altri, ricche di sfumature e di significato, unita al rifiuto di creare spazi di ascolto e di dialogo, costituisce uno dei pericoli più gravi della nostra epoca.

Se viviamo in tempi di rottura, allora il nuovo tema deve essere la riparazione. Come possiamo riparare ciò che è così evidentemente rotto? Einstein credeva che una forma di guarigione sarebbe arrivata attraverso la creazione di un governo mondiale. Da questa visione sono nate organizzazioni come le Nazioni Unite. La sua speranza era che i leader mondiali ci guidassero verso una sorta di coesione globale, ma questo processo non si è sviluppato come avremmo sperato. Sebbene queste istituzioni abbiano ottenuto molti risultati positivi, ci ritroviamo ad affrontare una crisi che è sempre più profonda.

Nei decenni passati, l’approccio alla gestione del potere è stato «dall’alto verso il basso». I leader imponevano le loro idee. Le decisioni venivano prese ai massimi vertici per poi filtrare giù attraverso una struttura gerarchica. Di solito, allora — e ancora oggi — si presumeva che i nostri leader agissero nell’interesse del bene comune.

Ma oggi viviamo in un’epoca che riconosce il principio dell’emergenza. Questo principio afferma che una moltitudine di entità semplici, che siano neuroni, batteri, formiche o persone, può manifestare proprietà che vanno ben oltre le singole capacità di un individuo. Gli uccelli in stormo, per esempio, che volteggiano nel cielo creando formazioni armoniose e perfette, mostrando qualità emergenti. Le api diventano straordinarie quando lavorano all’unisono. E così i gruppi di persone: possono possedere un’intelligenza — o una stupidità — che supera di gran lunga la somma delle loro capacità individuali.

Anche il racconto di storie possiede qualità emergenti e, in questi tempi turbolenti, condividere le nostre storie e ascoltare quelle degli altri, potrebbe essere una delle poche cose in grado di salvarci.

Raccontare storie è un invito all’azione. Ascoltare storie è una forma di preghiera.

In Narrative 4, un’organizzazione globale no-profit che dà ai giovani il potere di creare cambiamenti attraverso il racconto e l’ascolto delle storie, abbiamo scoperto una formula semplice ma potente per avviare una trasformazione. Tu racconti la mia storia, io racconto la tua. In prima persona. Faccia a faccia. Non una storia didattica, ma una storia profondamente personale. Non qualcosa per dominare in una discussione, ma qualcosa capace di scuotere l’anima. Una parabola, se volete. Qualcosa che accede alla verità senza bisogno di fare dichiarazioni. Qualcosa che è umile. Qualcosa che abbassa la testa. Qualcosa — o meglio, qualcuno — che ascolta. Abbiamo realizzato il programma Narrative 4 in Irlanda, in Messico, negli Stati Uniti, in Nigeria, in Sud Africa e in decine di altri Paesi nel mondo.

Inizia nelle nostre aule, perché ciò che accade al loro interno plasma il resto delle nostre vite. Da lì, si espande verso l’esterno — attraverso la città, il paese, gli oceani — creando una rete di connessioni. Raccontando e ascoltando, i giovani presto si rendono conto di quanto siamo più simili che diversi. Grazie a questa condivisione, non solo viviamo nella storia di un’altra persona, ma ascoltiamo la nostra stessa storia che ci viene raccontata. E in questo processo, semplice ma straordinario, riconosciamo la nostra condivisa umanità.

Nel suo messaggio per la 54ª Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, Papa Francesco ha scritto: «Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri».

L’atto di ascoltare e parlare rafforza le nostre stesse idee di pace, uguaglianza, democrazia e comprensione. Le storie possono ispirare l’azione, che a sua volta può portare al cambiamento. Invece di essere imposto dall’alto, questo cambiamento emerge dal basso. Anche se non siamo d’accordo l’uno con l’altro. Anche se viviamo oltre un confine. Anche se le nostre storie sono profondamente diverse. Anche, perfino, se non ci piacciamo.

Sono stato fortunato ad avere l’opportunità di scrivere le storie di due padri, uno israeliano e uno palestinese, Rami Elhanan e Bassam Aramin. Nonostante abbiano perso le loro figlie in incidenti separati durante il conflitto, sono diventati buoni amici. E ciò che rende la loro storia ancora più sorprendente, è che sono riusciti a mantenere questa amicizia. Viaggiano insieme per il mondo, condividendo le loro esperienze. La loro filosofia è semplice e profonda: non è necessario che ci amiamo. In realtà, non è nemmeno necessario che ci piacciamo. Ma dobbiamo... dobbiamo... dobbiamo capirci, altrimenti siamo perduti.

E così continuano a viaggiare. Continuano a raccontare le loro storie. Sono diventati pellegrini della speranza.

È un compito che spetta a ciascuno di noi — studiosi, scrittori, meccanici, studenti, religiosi, addetti alle pulizie — ma, in particolare, spetta ai nostri insegnanti e giornalisti, che sono in una posizione unica per guidare questo nuovo principio di emergenza. Tra i «pellegrini della speranza» che onoriamo qui oggi, sono i nostri insegnanti, i nostri giornalisti, i nostri comunicatori a guidarci lungo gran parte del cammino. Sono in una posizione privilegiata per aiutare a raccontare le storie degli altri. Sanno che affinché una storia venga raccontata, deve prima essere ascoltata con attenzione. E queste storie, insieme alla comprensione che promuovono, possono andare oltre l’aula o la redazione, e attraversare strade, città, Paesi, oceani, e raggiungere altri continenti. Questo, quindi, diventa un pellegrinaggio di riparazione.

Una comunità di sentimento. Una mitologia delle pulsioni. Come pellegrini, chinando il capo sulla strada impervia, proseguiamo il cammino, portando la nostra umanità, e l’umanità degli altri, da un luogo all’altro.

Se tutto ciò suona come un fervido appello, che lo sia: è un fervido appello. Viviamo tempi pericolosi. Non possiamo permetterci di ignorare le esperienze degli altri. Raccontare e ascoltare storie salverà il mondo? Forse sì, forse no... ma sicuramente offrirà, se non altro, uno spiraglio di luce e di comprensione. E dove c’è uno spiraglio di luce, c’è la possibilità che se ne presentino molti altri, agendo e collaborando insieme, fino a quando almeno una parte delle tenebre non verrà squarciata.

Alla base, anche il solo fatto di essere interessati gli uni agli altri è già un trionfo. Immaginate quanti trionfi si verificano quando impariamo a comprenderci, a piacerci o, magari, anche ad amarci. Persone ordinarie, con le nostre storie straordinarie, e la nostra capacità di entrare in connessione.

La distanza più breve tra il nemico e il prossimo è una storia. I cinici diranno che stiamo sbagliando. Che siamo degli ingenui sentimentali. Ma è davvero ingenuo e sentimentale rifiutare la speranza? I cinici sono intrappolati nelle loro convinzioni. Non sono disposti a intraprendere un cammino altrove. Restano immobili. Chiudono le tende. Spengono il gps della loro immaginazione.

Significa forse che dovremmo isolare i cinici e lasciarli dove sono? No, certamente no. Al contrario: dobbiamo abbracciarli con fiducia, ascoltarli, chinare la testa. Condividere le nostre storie e ascoltare le loro. Trovare un terreno comune. E poi andare avanti, con la speranza di aver lasciato dietro di noi un’impronta di guarigione.

In questa era esponenziale, mentre la frattura continua ad ampliarsi, l’essenza stessa della riparazione risiede nella necessità di imparare a conoscerci. E per conoscerci davvero, dobbiamo ascoltarci e comunicare. E dopo aver ascoltato, dobbiamo cercare di comprendere. Solo allora, con rispetto, gioia e coraggio, potremo cominciare a innescare il cambiamento.

Che il Signore benedica e protegga ciascuno di voi. Míle buiochas[Grazie mille, in irlandese].

*(traduzione dall’inglese di Marinella Magrì)