· Città del Vaticano ·

La nota «Gestis Verbisque» del Dicastero per la Dottrina della Fede / 7

Una rilettura del linguaggio tridentino alla luce
del Vaticano II

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18 gennaio 2025

di Pasquale Bua*

La Nota Gestis verbisque, pubblicata il 2 febbraio 2024 dal Dicastero per la dottrina della fede, dedica ampio spazio agli elementi che costituiscono la «sostanza» dei sacramenti: materia, forma e intenzione (cfr. n. 12).

Lo scopo del testo, anticipato dalla Presentazione del cardinale prefetto Víctor Manuel Fernández, è di offrire criteri di discernimento in ordine alla celebrazione «valida» dei sacramenti, a fronte di liturgie in cui la «creatività» del ministro — accompagnata non di rado da una «volontà manipolatrice» — ha compromesso l’elargizione della grazia sacramentale, danneggiando anche gravemente i fedeli. Criteri che, appunto, si possono riassumere nell’osservanza della «materia» e della «forma» prescritte, cui si aggiunge l’«intenzione» del ministro.

Un simile vocabolario è chiaramente ispirato alla teologia di Tommaso d’Aquino e più in generale della Scolastica e, su tale scia, alla dottrina sacramentale dei Concili di Firenze e di Trento: Tommaso e Trento, non a caso, sono richiamati varie volte dal documento. Dato che notoriamente l’Aquinate riprende, trasformandole, alcune categorie del pensiero aristotelico, l’impressione iniziale potrebbe essere quella di trovarsi di fronte a un linguaggio filosofico, anzi per l’esattezza di fronte al linguaggio di una certa filosofia, appunto l’essenzialismo aristotelico-tomista.

Se poi si considera che, dopo Trento, quei termini diventeranno decisivi per l’elaborazione del diritto liturgico, cioè per definire le norme canoniche che disciplinano i riti sacramentali (come si vede nel Codice di diritto canonico del 1917 e ancora in quello del 1983), quel linguaggio appare al tempo stesso segnato da un innegabile “tenore” giuridico.

Eppure, se quei concetti vengono considerati nella cornice più ampia del documento, diventa evidente che l’intento di Gestis verbisque è, in profondità, di rileggere le categorie “tradizionali” alla luce del “nuovo” insegnamento del Concilio Vaticano ii , che nella Nota è del resto citato ben più frequentemente.

In un certo senso, ci troviamo in presenza di un esercizio di «ermeneutica della continuità» e «della riforma» (della quale, come si ricorderà, parlò Benedetto xvi nel celebre Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005), in base a cui il nuovo nella Chiesa non nasce mai dal nulla, ma scaturisce organicamente dall’antico, disvelandone le potenzialità latenti.

Il Vaticano ii , è vero, non parla più di sostanza, materia, forma e intenzione. A scomparire è soprattutto il binomio materia-forma intorno a cui, nel corso del secondo millennio, la dottrina sacramentaria era venuta sempre più cristallizzandosi. Quel linguaggio è abbandonato con l’intento di attingere il più possibile alla Bibbia e ai Padri (secondo il principio del “ritorno delle fonti”). Ciò, però, non significa che il Concilio si congedi sic et simpliciter da ciò che quel linguaggio voleva a suo modo esprimere, proprio perché anch’esso rappresentava a propria volta il tentativo di interpretare il dato rivelato.

Il Vaticano ii , in particolare, ci mostra che la sacramentalità è categoria ampia, che oltrepassa il settenario sacramentario per raccogliere sotto un unico ombrello la Rivelazione, l’evento Cristo che di quella Rivelazione è il centro, la missione della Chiesa che dell’evento Cristo è il prolungamento fino alla fine della storia.

La sacramentalità diviene così, per il Concilio, la “legge” che governa l’intera historia salutis e che Dei Verbum 2 riassume con espressioni pregnanti: «Quest’economia della Rivelazione comprende eventi e parole [gestis verbisque] intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto». E ciò perché Dio intende rivelarsi all’uomo ed entrare in relazione salvifica con lui humano modo: in maniera visibile, udibile, palpabile, finanche odorabile e assaporabile, cioè sempre e comunque percepibile con quei sensi senza cui non può esservi nell’essere umano conoscenza (come insegnava già Tommaso) né dischiudersi per lui autentica relazione con l’altro.

La scelta di ricalcare espressamente questo testo conciliare nell’incipit della Nota fa di Dei Verbum 2 lo sfondo imprescindibile per afferrare il contenuto di Gestis verbisque. Ad esso si aggiungono riferimenti a Sacrosanctum Concilium e Lumen gentium (in particolare nei nn. 6-7), in cui leggiamo che la Chiesa stessa è — insieme a Cristo, grazie a Lui e dopo di Lui — il grande sacramento della salvezza. Definizione che LG 8 spiega affermando che nella Chiesa ciò che è visibile è al servizio del mistero invisibile, e ciò per una «non debole analogia» con il Verbo incarnato.

Si potrebbero tessere insieme tutti questi testi del Vaticano ii — aiutati proprio dalla Nota che stiamo considerando — per ricavarne la visione conciliare complessiva della sacramentalità, che abbraccia teologia della Rivelazione, cristologia, ecclesiologia e sacramentologia.

Quell’«economia della Rivelazione» prosegue in modo particolare, sebbene non esclusivo, nei sacramenti della Chiesa, perché è soprattutto in essi che Dio e la sua offerta di salvezza continuano a farsi “sentire”, “percepire”, “gustare”, mediante quelle realtà che la tradizione teologica del secondo millennio ha definito materia e forma. Di entrambe Gestis verbisque propone una descrizione “aggiornata”, di cui in effetti si avvertiva il bisogno: una descrizione in cui il fondamento biblico e il contenuto teologico affiorano più chiaramente, nello spirito del Concilio e del Magistero successivo, ma pure in linea con le migliori acquisizioni della teologia sacramentaria contemporanea, sensibile alla dimensione “corporea” (o “incarnata”) dei sacramenti (la materia) e alla dimensione “sacramentale” (o “performativa”) delle parole (la forma).

La materia, da una parte, «consiste nell’azione umana attraverso la quale agisce Cristo. In essa a volte è presente un elemento materiale (acqua, pane, vino, olio), altre volte un gesto particolarmente eloquente (segno della croce, imposizione delle mani, immersione, infusione, consenso, unzione). Tale corporeità appare indispensabile perché radica il sacramento non solo nella storia umana, ma anche, più fondamentalmente, nell’ordine simbolico della creazione e lo riconduce al mistero dell’incarnazione del Verbo e della redenzione da lui operata» (GV 13).

Colpiscono, in queste ultime battute, anche le virtualità “ecologiche” di tale ricomprensione della materia sacramentale (come mostra, in nota, il richiamo a Laudato si’ 235-236, laddove Papa Francesco offre una sintesi preziosa di “teologia ecologica dei sacramenti”).

La forma, dall’altra parte, «è costituita dalla parola, che conferisce un significato trascendente alla materia, trasfigurando il significato ordinario dell’elemento materiale e il senso puramente umano dell’azione compiuta. Tale parola trae sempre in varia misura ispirazione dalla sacra Scrittura, affonda le sue radici nella vivente Tradizione ecclesiale ed è stata autorevolmente definita dal Magistero della Chiesa mediante un attento discernimento» (GV 14).

Sempre collocandosi nell’orizzonte concettuale del Vaticano ii , un testo di questo tipo sembra propiziare una “riconciliazione” tra Parola e sacramenti, permettendo di lasciarsi alle spalle la secolare opposizione tra la “Chiesa della Parola” dei Riformatori e la “Chiesa dei sacramenti” dei Cattolici.

La Parola stessa, rendendo Dio “udibile”, è un “sacramento”, mentre i sette sacramenti, quali avvenimenti essenzialmente “linguistici”, sono celebrazioni in cui quella Parola raggiunge una speciale efficacia per suscitare, ridestare o rafforzare la fede.

Alla materia e alla forma, prosegue la Nota, si aggiunge «l’intenzione del ministro che celebra il sacramento», il quale «deve avere l’“intenzione di fare almeno ciò che fa la Chiesa”, rendendo l’azione sacramentale un atto veramente umano, sottratto a ogni automatismo, e un atto pienamente ecclesiale, sottratto all’arbitrio di un individuo» (GV 18; cfr. DH 1611). Il linguaggio è di nuovo tridentino, ma di nuovo Gestis verbisque compie lo sforzo di “riplasmare” un concetto tradizionale alla luce del Magistero recente (dal capitolo iii di Lumen gentium fino all’attuale Vescovo di Roma): dire che il ministro deve possedere l’intenzione della Chiesa non significa dire che egli deve agire sempre e solo nel e per il Popolo di Dio, non considerandosi il detentore privilegiato di un potere arbitrario ma il “servo” e il “garante” della Comunità? Non c’è in questo rimando al concetto “tradizionale” di intenzione una stoccata a quel clericalismo che Papa Francesco ha più volte messo sotto accusa?

Se le cose stanno così, parlare di materia, forma e intenzione come degli elementi che costituiscono la «sostanza» dei sacramenti non equivale a un improbabile ritorno al passato, ma è il tentativo di mettere in dialogo passato e presente, perché ciascuno porti luce all’altro. Trento e il Vaticano ii , in una simile visione, non sono le “bandiere” di due diverse teologie, e in definitiva di due diverse Chiese, ma due sviluppi successivi dell’unica Tradizione vivente, in cui l’innegabile — e per tanti aspetti inevitabile — discontinuità, percepibile anzitutto nei linguaggi, non impedisce di riconoscere un’interrotta continuità, il cui artefice è ultimamente lo Spirito Santo.

*Pontificia Università Urbaniana