· Città del Vaticano ·

Il racconto del sabato

L’istante della verità

 L’istante della verità  QUO-014
18 gennaio 2025

di Luca Doninelli

Insegnanti si nasce e si rimane per sempre, diceva il nostro preside, prof. Magagnoli. Quanto a me, sulla prima affermazione non sono mai stato d’accordo, o comunque non m’interessa. Che si nasca o no qualcosa, che importanza ha?

Ma sulla seconda affermazione non ho dubbi. La comunicazione di noi stessi — perché insegnare vuol dire questo, e solo questo — può essere più potente della morte.

È la storia della mia vita.

Ho quarantacinque anni e mi presento oggi come un uomo discretamente elegante, non brutto, brizzolato — uno di quegli uomini che le donne definiscono interessanti. Ho smesso di insegnare nelle scuole da dieci anni. Quello che vedete oggi davanti a voi è un uomo molto diverso, esteriormente, dall’uomo di allora.

Dodici anni fa ero sposato con Claudia e avevo una bambina di nome Maddalena. Insegnavo storia e filosofia in un liceo scientifico frequentato da figli della ricca borghesia milanese: tanto ricca che la cosiddetta paga settimanale di alcuni di loro era superiore al mio stipendio.

Pensando a cose come queste, per qualche tempo soffrii di risentimento nei riguardi dei ricchi, anche se fu proprio l’insegnamento, anno dopo anno, a farmi cambiare idea. I ragazzi erano buoni e generosi e avevano una grande stima di me. Sapevano quello che tutti sanno senza mai poterlo dire, e cioè che la stima e l’affetto non si possono acquistare — perché è ridicolo affermare, oggi, che ci sono cose che il denaro non può comprare: è ridicolo, sciocco, ingenuo, eppure tutti sappiamo che le cose stanno esattamente così. Loro lo sapevano. Ma siccome non bisogna saperlo, ecco che la scuola viene gettata nel discredito più completo. Se si potesse annullarla, o trasformarla in qualcosa di totalmente diverso — in una specie di palestra per nuovi imprenditori, nuovi dentisti, nuovi amministratori delegati, nuovi idraulici — lo si sarebbe già fatto, visto che i Ministri della Pubblica Istruzione continuano a provarci.

Fu insegnando, dunque, che imparai che la cosa più bella della vita non si può acquistare: loro, i ragazzi, non lo sapevano ancora del tutto — mi amavano, ma dentro di sé pensavano: sarò ingegnere nucleare, sarò banchiere, sarò il direttore dell’azienda di mio padre, sarò sovrintendente di questo e di quello, mi darò alla politica — non capivano quanto erano felici solo per il fatto di essere lì, insieme tra loro e con me. Mia moglie mi rimproverava per la mia dedizione, diceva che non potevo trascurare la famiglia, ma poi mi lasciava fare perché, quando invitavo i ragazzi a casa mia, anche lei capiva, guardandoli in faccia, che stavo lavorando bene.

Io mi struggevo per loro, per la felicità che provavano senza capire cosa fosse, dove stesse, e di cui loro si creavano senza sosta immagini vuote e aride. Ma io come potevo indirizzarli sulla strada giusta, che li avrebbe condotti alla conquista più importante e difficile, che è la conquista di se stessi? Non potevo, ecco tutto.

Ecco, perciò, com’erano per me quegli anni. Felici e dolorosi.

La mia allieva preferita era una ragazza che veniva da un paese della provincia. Si chiamava Maria Luisa. Era una delle più intelligenti, e anche una delle meno ricche. Finito il liceo — che lei aveva voluto frequentare per puro capriccio — sarebbe andata a lavorare. Benché fosse molto graziosa e si vestisse con gusto, si capiva che apparteneva a una classe sociale diversa dal resto dei compagni. Non che fosse discriminata, anzi: era una delle più corteggiate dai ragazzi. Però era diversa, era più riservata, più seria, meno sorridente. Era sempre preparata, ma nelle discussioni non interveniva mai, né lasciava mai trapelare il proprio pensiero. Quali fossero le sue opinioni, non si poteva sapere. Era fidanzata. Il suo ragazzo era un giovane meccanico di nome Gabriele: me l’aveva presentato una volta, all’uscita della scuola.

Il volto di Maria Luisa mi è tornato alla memoria tante volte, negli anni successivi. Furono anni terribili, dai quali mi sto riprendendo soltanto adesso.

Per cominciare, una bella mattina, di punto in bianco mia moglie se ne andò con la bambina. Frettolosamente disse che amava un altro uomo, mi domandò scusa per la sua vigliaccheria che le aveva impedito tante volte di parlare — del resto, adesso era tardi —; poi uscì di casa, di corsa, tutta ripiegata sulla bambina, e io dalla finestra la vidi salire, da basso, su un’automobile giallina. Non fui capace di dirle neppure una parola, neppure una. Alla bambina non diedi nemmeno un bacio, e lì stette la mia colpa. Ricordo il motore dell’ascensore, il freddo sulle scale. Ricordo la data: ventisei febbraio.

Molte cose vecchie si diedero appuntamento in quell’istante. Non provai alcuna desolazione per quello che era successo, non mi chiesi cosa ne sarebbe stato di lei e della bambina. Avevo pensato di amarle, invece non era così: adesso lo sapevo e, chissà come chissà perché, non me ne dolevo. Il cuore è strano: quando ama veramente qualcosa, s’illude di poter amare anche tutto il resto. Come sono generosi col prossimo i veri innamorati! Invece, anche questa non è che una piacevole illusione. Io avevo amato solo i miei ragazzi, questa era la verità. E ora che Claudia e Maddalena non c’erano più, ecco: mi domandavo se li avessi amati veramente. Mi sentivo tutto fatto come di cenere.

Me ne restai tranquillo tutto il giorno, e la sera guardai un film in tv come se loro due dovessero tornare l’indomani.

Alcune mattine dopo ricevetti una telefonata. Era l’amante di mia moglie. Mi annunciava che mia moglie era morta per un’infezione alle vie respiratorie per colpa di un bagno di mare alle Bahamas. Lectospirosi, disse. Era medico, gliel’aveva diagnosticata lui stesso.

«Mi riporti la bambina» dissi.

Mia figlia a quel tempo aveva tre anni. La affidai ai miei genitori. A scuola chiesi e ottenni un anno di aspettativa. Mi era passata ogni voglia di fare, tutto mi sembrava inutile. Me ne stavo da solo tutto il giorno a guardare la tv e a ingrassare. Tenevo le tapparelle abbassate anche di giorno e, per essere del tutto sincero, questa cosa mi piaceva — anzi: la disperazione mi piaceva.

Così, piano piano, la persuasione di avere completamente fallito cominciò a prendere possesso del mio corpo. L’avevo capito subito, non appena ricevuta la notizia della morte di Claudia. Non ero stato capace di amare nulla e nessuno. Ma per qualche tempo, da principio, il mio corpo aveva continuato a mangiare, dormire, vestirsi come sempre. Poi la solitudine cominciò ad agire in me. Smisi di dormire, mi gonfiai di cibo e cercai più che potevo di dimenticarmi di me stesso.

Durante la notte ero tormentato dall’insonnia, e passavo ore e ore alla radio, dove cercavo le frequenze più insolite: Helsinki, Budapest, Bucarest. Mi piaceva il guaito delle onde radio, specialmente la notte, con quelle voci e quelle lingue strane, che compivano il loro quieto naufragio. Voci colloquiali lontane e vicine insieme, canzoni suonate con strumenti esotici, cantate da voci astute e sentimentali.

Com’era bella la radio! Com’era bello dimenticare tutto così, senza strazio! Certe sere, però, la voce della radio non mi bastava, e non resistendo alla solitudine me ne uscivo a piedi verso la periferia, dove c’erano le puttane. Le guardavo a lungo, poi a notte fonda rincasavo. Anche loro mi guardavano, e dopo cinque o sei volte qualcuna mi salutava, ciao ciao.

Finché, una notte, chiesi a una di loro di venire a casa mia.

«No, a casa tua no»

«Non c’è niente a casa mia»

«Mi fai spavento, bello»

«Cosa devo fare?»

«Andiamo in albergo. Hai i soldi?»

«Sì»

Alle tre, mentre ce ne stavamo a letto in attesa del sonno, mi venne da piangere. La puttana mi mise una mano sulla spalla.

«Cos’hai?»

«Non lo so», dissi, ed era proprio così: non lo sapevo.

Mi disse se volevo parlarle, ma io la pagai e lei uscì.

Intanto, avevo abbandonato definitivamente la scuola. L’aspettativa, alla scadenza dell’anno, era diventata licenziamento. Tornai a lavorare per qualche tempo in un ufficio, tra persone che mi dicevano «ehi tu». Un radioregistratore se ne stava perennemente appoggiato sulla scrivania del capo. Poi lasciai anche questo lavoro e mi ridussi a dare lezioni a domicilio, finché vissi solo di quello che mi passavano i miei genitori. Ero diventato incapace di lavorare.

Tornai una sera a cercare quella prostituta, ma non la vidi. Ne vidi un’altra e feci con lei le stesse cose che avevo fatto con la prima. Anche stavolta scoppiai a piangere. Mi piaceva piangere, e avrei tanto voluto dire tutto di me, tutto fino all’ultima parola, invece non avevo niente da dire, le parole non si trovavano più.

Tante altre volte mi accompagnai a quelle donne. Erano tutte gentili e comprensive, e tutte, senza eccezione, migliori di me. Questo pensiero era il più piacevole di tutti, a quel tempo: sì, esistevano persone buone e comprensive, e anche se io non avevo saputo esserlo, non importava molto: l’importante era che ci fosse qualcuno. E voglio dire anche un’altra cosa: gli sguardi “da puttana” sono tra i più belli, puri e umani che si possano incontrare.

Con quelle ragazze piangevo quasi sempre. Non erano pianti liberatori, ma soltanto pause, come certi acquazzoni di piena estate, che mitigano l’afa solo per poche ore. Loro accettavano tutto questo, cioè il mio dolore e la loro impotenza a darmi sollievo, senza chiedermi nulla più del dovuto. Per questo le amerò sempre.

Una notte m’incamminai verso l’ormai solito rendez-vous, quando un presentimento, o ciò che scambiai per un presentimento, mi fece arrestare su un angolo.

Stavo chiedendomi cosa fosse successo, perché mai quell’istante di spavento, quando sollevando gli occhi vidi Maria Luisa lì, in mezzo alle prostitute.

Era lei, non c’era dubbio. Ed era una di loro.

Ricordai di aver sentito che aveva lasciato il suo meccanico di nome Gabriele, che si era unita a certe cattive compagnie, ma non avrei potuto mai immaginare che...

Come aveva potuto — proprio lei? Io potevo, ah sì, ma lei no, non poteva. Perché l’aveva fatto? Come se non bastasse il caso l’aveva spinta, poi, proprio sul viale che io frequentavo da qualche tempo.

Voleva punirmi più di quanto non fossi già stato punito?

O, forse, aveva sentito parlare di me e voleva vedermi?

Nascosto dietro quell’angolo, per qualche minuto rimasi incerto se dirigermi verso di lei, ma alla fine mi volsi e tornai a casa.

La sera successiva alla stessa ora tornai al mio angolo, e vidi che lei era ancora laggiù. E così per tre, quattro, dieci sere. Talvolta saliva su un’automobile e spariva.

Ecco, ecco dunque cosa ne era stato della mia — sì, della mia! — Maria Luisa. E com’era sfrontata, la mia amica: portava una gonna cortissima e una camicetta sempre aperta, che le lasciava scoperto il seno piccolo e bianco.

Credo che mi sarei disperato al punto di smarrire quel poco di voglia di vivere che mi restava, se una di quelle sere non avessi deciso di uscire dal mio nascondiglio e andare da lei a salutarla.

L’avevo desiderato fin da principio, ma non l’avevo mai fatto a causa della mia immaginazione, che m’imponeva quadri spiacevoli.

Ciao le avrei detto.

Guarda chi si vede avrebbe potuto rispondere.

Come stai? le avrei chiesto, e lei:

Sentimi bene, io sono qui per lavorare. Vuoi che andiamo su da me? Hai la macchina?

E io:

Non ti ricordi più di me?, e lei:

Certo che mi ricordo, ma questa è una scuola diversa: si studia meno, forse, ma è lo stesso schifo.

O altre cose simili.

Avevo letto troppi brutti libri, visto troppi brutti film americani, e soprattutto avevo smesso di vivere: ecco perché i miei pensieri non avevano più una loro vita.

Ma quella sera, non volendo morire, decisi di andare da lei. Prima di uscire da dietro quell’angolo, mi sorpresi a ravviarmi i capelli, a lisciarmi la giacca, a maledire il fatto di non essermi profumato, a casa.

Attraversai la strada con passo lento e solenne, come il giorno in cui mi ero sposato. Se mia moglie fosse ancora viva, pensai, sarebbe tornata da me, ne sono sicuro. E mi venne una gran voglia di piangere, e mi trattenni a stento, e capii che tutte le volte che avevo pianto, dopo aver fatto l’amore con questa o quella puttana, avevo pianto per la mia cara moglie morta, cui non avevo voluto bene.

E invece l’amavo.

Maria Luisa ebbe un sussulto, quando mi vide con la coda dell’occhio. Avevo immaginato che sapesse del mio nascondiglio, invece, sorprendentemente, non sapeva nulla.

La prima cosa che fece non appena mi vide fu di chiudersi la camicetta. Proprio come io mi ero lisciato la giacca.

«Professore!» disse, con voce sottile.

«Ciao, Maria Luisa» risposi.

Abbassò gli occhi.

«Ha visto?»

Cercai di ridere.

«Hai visto tu?»

«Professore, mi dispiace moltissimo»

«Andiamo?», le dissi.

Lei capì subito che non le stavo proponendo quello che tutti, lì intorno, avrebbero potuto pensare. In un istante, lei era diventata di nuovo la mia allieva, e nient’altro, e io non ero altro che il suo insegnante di storia e filosofia.

Ce ne andammo via così, e appena girato l’angolo ci demmo la mano come due fidanzati, come i fidanzati che non eravamo e non saremmo stati, ma con la stessa promessa di purezza degli innamorati, che la vita da sola non sa mantenere e che, tuttavia, rimane scritta dentro di noi, anche se il mondo trova questa cosa sciocca e di cattivo gusto.

Passammo la notte parlando di storia risorgimentale: da dove era partito l’ordine che aveva fatto scoppiare i moti del ‘20 e del ‘21? Fu di questo che discutemmo per tutta la notte, fino a giorno inoltrato.

Quella notte fummo persino felici, e riuscimmo nonostante tutto a desiderare di esserlo per sempre.