Nel suo discorso di fine anno il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha esordito ricordando l’orrore delle guerre che hanno funestato il 2024. Su tutte, le immagini atroci della neonata morta di freddo a Gaza la notte di Natale. Da quel giorno altri cinque bambini hanno subito la stessa sorte. Così come da ormai quindici mesi 101 ostaggi israeliani (ma forse ancora in vita assai meno) sono prigionieri in “condizioni disumane” di detenzione.
Ma il presidente, nel suo messaggio, ha voluto anche ricordare le grandi difficoltà a raccontare in verità e sicurezza le guerre, e segnalare le condizioni di pericolo che devono affrontare i giornalisti. C’è sicuramente un lavoro duro e prezioso che affrontano i giornalisti occidentali, e di cui abbiamo riferito sul nostro giornale il 6 novembre scorso in un’inchiesta, significativamente intitolata «Raccontare la guerra è vivere la guerra». Tuttavia, poiché a Gaza l’ingresso ai giornalisti è impedito (tranne pochi embedded israeliani), i rischi che questi corrono sono limitati. La nostra coscienza solidale è allora piuttosto indirizzata verso quei giornalisti palestinesi che continuano ad operare dentro la Striscia. Secondo i dati forniti dall’Autorità palestinese sarebbero ben 201 i giornalisti uccisi nella Striscia dal 7 ottobre del 2023. Un numero spaventevole che non ha guadagnato l’evidenza che meriterebbe sui media occidentali.
Chi sono questi giornalisti? La maggior parte sono giovani palestinesi di Gaza freelancer. Data l’impossibilità per i media occidentali di entrare a Gaza, questi ragazzi trasmettono informazioni e video ai giornali e ai network che glieli richiedono. Più che giornalisti sarebbe più corretto definirli “operatori della comunicazione”: nella cifra dei 201 uccisi figurano video-maker, producer, cameramen, fixer, organizzatori logistici. Alcuni di questi giovani hanno iniziato la loro attività professionale proprio con la guerra; magari avevano studiato comunicazione o giornalismo all’ università, e lo scoppio del conflitto li ha precipitati in un ruolo attivo, spesso più grande di loro e delle loro competenze.
«Sono giovani volenterosi che danno notizie ma sono essi stessi notizia», ci dice Safwat Khalout, ex caporedattore di Al Jazeera a Gaza ora riparato in Italia con la famiglia. Altri invece sono corrispondenti “storici” di testate esterne alla Striscia: così hanno incontrato la morte, per esempio, il corrispondente della tv ufficiale dell’Autorità palestinese a Ramallah, o il cameraman e reporter della tv qatariota Al Jazeera. Nessun media permanente nella Striscia ha più una sede, tutti lavorano nelle tende. La stessa Al Jazeera, che lavorava in un moderno palazzo di Gaza City, ora monta i servizi e li trasmette da una tenda. Nelle stesse ore in cui si denunciava l’arbitrario arresto di Cecilia Sala in Iran, a Gaza cinque giornalisti venivano uccisi. Uno di loro, Ayman al Gadi, solo qualche minuto prima di essere colpito da un mortaio israeliano festeggiava la nascita del suo primogenito, avvenuta poche ore prima.
Nella maggior parte dei casi l’Idf, le forze armate israeliane, identificano gli uccisi come appartenenti ad Hamas o alla Jihad islamica, e quindi terroristi. Ora, in un territorio in cui Hamas riscuoteva il 70% dei consensi, non è improbabile che alcuni di loro simpatizzassero per l’organizzazione islamista, o meglio per il suo braccio politico (che non significa tout court svolgere un’attività terroristica). In casi sospetti la decisione opportuna sarebbe quella di arrestare e giudicare gli operatori della comunicazione, non certo quella di procedere ad un’esecuzione mirata. Le idee si confutano, si condannano, al limite si censurano, ma non si uccidono. Il risultato, oltre all’atroce bilancio di vite umane, è che una rappresentazione veritiera di quanto accade realmente a Gaza è difficile, se non impossibile. Parte della stampa israeliana, che si mantiene libera e indipendente, come il quotidiano «Hareetz» e il giornale on line «+972» esprimono le medesime preoccupazioni e denunce. Che però troppo spesso rimangono senza esito alcuno. Sono passati, per esempio, due anni e mezzo dall’assassinio a Jenin della giornalista cattolica, statunitense palestinese, Sheeren Abu Akleh, ma nessun colpevole è stato finora individuato e punito. Le parole del presidente Mattarella rompono dunque un silenzio e un deficit di attenzione su uno degli aspetti drammatici dell’intera tragedia che si consuma da quindici mesi.
di Roberto Cetera