· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Lavoro e autonomia: così Rosa Govone liberò le donne

La rivoluzione sociale
delle Rosine

 La rivoluzione sociale delle Rosine  DCM-001
04 gennaio 2025

«Gli innocenti — diceva Bertrand Russell — non sapevano che la cosa era impossibile e per questo la fecero». E qui il concetto di «ingenuità» è più vicino a quello storico dell’antica parola latina, era «ingenuo» chi nasceva libero. Libero da pregiudizi e preconcetti. Come Francesca Maria Govone, nata nel 1716 e morta nel 1776, diventata terziaria domenicana con il nome di Rosa, fondatrice degli istituti che, prendendo il nome da lei, saranno «delle Rosine». Ha fatto del bene a tante ragazze povere, diseredate, ha dato loro un mestiere e segnato una via che tuttora viene percorsa. Era considerata santa già da viva, ed è ritenuta la prima tra i «santi sociali» piemontesi. Eppure, per motivi legati probabilmente alla mutata compagine sociale, non fu mai aperto alcun processo di beatificazione. E la sua immensa attività a favore delle donne è poco conosciuta.

Europa. 1700. Nella metà del secolo il vecchio continente è trascinato in un moto espansivo che si manifesta in ogni settore, dalla demografia alla produzione agricola, dalle manifatture al commercio. Aumentano l’aspettativa di vita media (che, ricordiamolo, era intorno ai trent’anni) e la natalità, diminuisce la mortalità infantile. Ma nelle aree rurali la vita è sempre grama. In Europa, Francia e Inghilterra continuano a scontrarsi, Austria e Spagna si contendono il predominio in Italia. Un’Italia ovviamente divisa, il Papa e i Granducati al centro, i Borboni al Sud, le repubbliche a Venezia e a Genova, gli austriaci a Nord Est, i Savoia a Nord Ovest. Dal 1730 al 1773 regna Carlo Emanuele iii : molte chiusure, qualche apertura, come quella che vedremo. E poi lo scossone dell’Illuminismo, con un generale moto di laicizzazione nella seconda metà del secolo.

Tutto ciò per provare a pensare che cosa doveva significare essere donna, in questo Settecento, in questo Piemonte, e nemmeno a Torino, ma a Mondovì, una cittadina in provincia di Cuneo: nel 1716, il 26 novembre, nasce la nostra Francesca Maria Govone. Famiglia di nobili decaduti, qualche terreno, un fratello e una sorella, un’educazione già importante per l’epoca: sa leggere e scrivere. Sa cucire, sa ricamare. Si aggrega al terz'ordine domenicano, diventa suor Rosa. I genitori muoiono quando lei ha una ventina d’anni. E qui già uno scarto rispetto a un possibile percorso segnato. Invece di subire, agisce: comincia a lavorare con una giovane donna come lei orfana e sola, Marianna Viglietti. Mondovì e le sue terre erano al centro di battaglie eterne. Sarà stata la guerra, sarà stata l’ispirazione della Divina Provvidenza, sarà stato il sodalizio Govone-Viglietti: sta di fatto che Rosa pensa all’impresa: dare un’alternativa alla miseria di tante ragazze sole, fondare una comunità indipendente per accoglierle. Insegnare loro un mestiere, renderle autonome. Un’idea rivoluzionaria, illuminata e non soltanto illuminista. Una mescolanza di fede e ragione.

Rosa Govone ebbe la fortuna di incontrare un sacerdote riformatore, padre Giovanni Battista Trona, grande predicatore su e giù per la sua diocesi: insieme con una contessa, Lucia di Marsaglia, riescono a trovare una casa adatta. In pochi anni le donne accolte in comunità sono una settantina. E si accolgono anche quelle che hanno una vita difficile alle spalle, una vita di prostituzione al seguito degli eserciti in continuo passaggio. E pensiamo quanto dovesse essere difficile, all’epoca, portare avanti un’opera, anzi un’Opera, di questo tipo. Come andare in missione in terre lontane, però a casa propria: forse ancora più difficile. A Mondovì nacque dunque l’«Educatorio delle Rosine», una casa per «accogliere povere figlie abbandonate, ma abili al lavoro, per allevarle secondo i principi cristiani». Nell’Opera fondata da Govone si preparavano tessuti, si ricamava, si realizzavano abiti. Un’altra caratteristica abbastanza clamorosa, e che ci testimonia quanto la modernità, intesa come apertura mentale, compassione, condivisione, possa appartenere a ogni periodo storico, era che le ragazze non prendevano i voti, pur pregando insieme. Quando riuscivano, grazie al loro lavoro, retribuito (non è così scontato nemmeno adesso, che il lavoro venga retribuito, tanto meno correttamente), a mettere da parte una piccola somma, potevano lasciare la comunità, sposarsi o entrare in un convento tradizionale.

E intanto Rosa aveva trent’anni, pochi adesso, non così pochi ai tempi. Era ormai Madre Rosa, a capo di una bella comunità, fatta di donne che vivevano insieme, in preghiera, ma del proprio lavoro, senza dipendere dalle elemosine. Anche questo è rivoluzionario, diverso da ciò che accadeva negli altri istituti di carità. Govone è lanciata, vuole portare l’Opera a Torino. Preceduta dalla sua fama, padre Trona, che è consigliere spirituale di Carlo Emanuele iii , garantisce per lei. Siamo nel 1755. Il re, sorprendentemente, ecco una buona apertura sabauda, le assegna i fabbricati dell’antico ospedale del Santo Sudario, appartenuti all’ordine religioso Fatebenefratelli. Lì apre l’«Opificio» delle Rosine, autosufficiente grazie alla vendita dei lavori tessili, prodotti nei laboratori interni. Dopo pochi mesi «le Rosine», come vengono chiamate, erano già centocinquanta.

La fede e le opere non passano inosservate. A volte, sono troppo difficili da capire. A Torino, solita terra di santi sociali, si racconta un aneddoto su don Bosco. La Curia voleva rinchiuderlo in manicomio: sognava, e poi voleva far diventare realtà i suoi sogni bislacchi. Era matto di sicuro. Gli mandano due preti e una carrozza con cui portarlo al manicomio, ma don Bosco al manicomio ci manda i due preti. Bene, di Rosa Govone non si diceva tanto che fosse pazza, quanto poco preparata intellettualmente e spiritualmente a gestire e dirigere un’opera che stava diventando imponente. Fu istituita dall’arcivescovo Roero una commissione composta da quattro teologi. Dissero che la sua Opera era perfetta, era lei che non andava bene. Ma come don Bosco un secolo dopo, suor Rosa ribalta la situazione e addirittura ottiene il patronato regio nel 1756, e negli anni successivi apre cinque case: un nuovo miracolo, visto che in tempi illuministi, le case religiose piuttosto chiudevano. E invece lei inaugura anche una scuola per trovatelli, le Rosine stesse erano le loro maestre. Bambini ma pure anziani, anzi anziane: dove andavano se non potevano più lavorare ed erano malate? Ecco un’infermeria per loro. Insomma, un pullulare di idee realizzate, di iniziative concretizzate. Il re sarà stato favorevole, ma non basta. Questa donna doveva avere una fede, una carità e un carisma pazzeschi. Purtroppo non ha lasciato scritti suoi.

Giuseppe Pomba, il grande tipografo/editore, in un libro del 1842, «Descrizione di Torino» ne parla così: «Ritiro delle Rosine, fondato nel 1758, serve di ricovero a povere zitelle che lavorano attorno ai lanifizi, manifatture seriche e di cotone a biancheria e a ogni sorta d’opera donnesca. L’Opera deve mantenersi con il lavoro delle ricoverate». La scritta sul portone dell’istituto, che a Torino si trova nella via ora chiamata Delle Rosine, recita infatti: «Vivrai dell’opera delle tue mani».

L’istituto esiste sempre, anzi è diventato un polo culturale, tra corsi, presentazioni di libri, spettacoli teatrali. C’è poi un pensionato per «studentesse e lavoratrici». Una ragazza che c’è stata, Flavia, ora architetto, racconta: «Abitavo in un paese della provincia di Torino, frequentavo il liceo classico, viaggiare era impossibile, io in collegio non volevo andare. I miei trovarono questa soluzione alle Rosine: era un istituto religioso, ma eravamo tutte molto laiche. Suore comprese».

Cent’anni dopo la sua morte, nel 1876, i concittadini sulla «Gazzetta di Mondovì» la ricordano come una grande, «la dimostrazione di quanto possa fare anche una donna, quando qualcosa le batte fortemente in petto e non ha zucca nelle cellule del cervello».

Una donna che punta al lavoro e all’indipendenza, propria e altrui? Ammirazione, magari. Ma non santa. Però, mai dire mai con la Chiesa. Pensiamo a Giovanna d’Arco, santificata dopo 500 anni.

di Alessandra Comazzi
Giornalista, critica televisiva