Instancabili seminatori
Con circa tremila fedeli di ogni nazionalità, riuniti nella chiesa madre di tutte le chiese, si è compiuto ieri, 29 dicembre, il rito di apertura della terza Porta Santa, dopo quelle della basilica Vaticana e della cappella del carcere di Rebibbia. Un rito, quello nella basilica papale di San Giovanni in Laterano, che segna l’inizio dell'Anno giubilare in tutte le diocesi. È stato il cardinale vicario per la diocesi di Roma, Baldassare Reina, a spalancare il battente di bronzo e a guidare l’ingresso dei pellegrini in questo scrigno di bellezza così particolarmente caro ai romani.
Dietro al porporato, il cardinale Enrico Feroci, che ha poi concelebrato all’altare insieme al vescovo Guerino Di Tora, i vescovi ausiliari e quelli emeriti, sacerdoti, autorità e cinque famiglie in rappresentanza del popolo di Dio che è nell’Urbe. Tra gli altri presenti, il pro-prefetto del dicastero per l’Evangelizzazione l’arcivescovo Rino Fisichella e il sindaco Roberto Gualtieri, che al termine della messa è stato salutato dal cardinale vicario.
In silenzio è stato compiuto il varco, le mani di Reina a spingere sul bellissimo altorilievo del Cristo morto e la Madonna con il Bambino Gesù dalla splendida plasticità; poi una sosta in preghiera e le campane che hanno risuonato sulle note dell’inno del Giubileo.
La calda atmosfera natalizia si è intrisa di trepidazione di un ricominciare e si è sprigionata nel canto di giubilo. Il cardinale vicario, dopo avere infuso l’incenso, ha incensato la statua del Bambino Gesù. In profonda comunione con Papa Francesco, nella sua cattedrale, l’invito a sentire il sostegno del Pastore a cui qui la preghiera è stata, fin dall’inizio dell’Eucaristia, assicurata. È un tempo opportuno, ha detto Reina, per «sentimenti e scelte di misericordia, bontà e giustizia».
Con la fila ai confessionali, e quella lunghissima, per ore, fuori dalla cattedrale, l’invocazione su tutti di essere accompagnati dalla grazia del Padre: «come gregge che si raduna nell’unico ovile possano vivere con frutto questo anno giubilare». Il pensiero del cardinale vicario si è rivolto con particolare compassione a chi si sente lontano e indegno e a chi porta nel cuore «il peso di amarezze profonde». Malati, carcerati, chi è segnato da dolore, solitudine, povertà, fallimento: sono le persone che ieri non sono state dimenticate. Non si senta abbandonato «chi si è lasciato cadere le braccia per sconforto o mancanza di senso», chi non ha speranza o chi ha smesso di cercare le braccia del Padre perché «chiuso in sé stesso o nella sicurezza delle cose del mondo». Così è risuonata la supplica: «In questo mondo lacerato da guerre, discordie e disuguaglianze tendiamo le braccia a tutti».
Per «provvidenziale coincidenza» il rito si è svolto nella festa della Santa Famiglia di Nazareth, «modello di ogni comunità domestica e specchio della comunione trinitaria», è stato ricordato. L’invito è stato proprio a riconoscersi tutti come famiglia di Dio, chiamata a crescere nell’unità e nella carità reciproca. La preghiera è soprattutto per i nuclei provati da difficoltà e sofferenze. In una delle intenzioni durante la messa, esplicita è stata la richiesta per le famiglie nell’indigenza: «Siano al centro dell’attenzione dei responsabili della vita civile e ricevano adeguati sostegni per un futuro più dignitoso». La Porta Santa, allora, è stata associata simbolicamente a quella soglia domestica che sono le nostre abitazioni: dall’entrata nella casa del Signore, a quella del nostro cuore, a quella del cuore di chi condivide gli spazi intimi delle nostre relazioni quotidiane. È stato questo il richiamo costante che ha fatto Reina fino a quando, nel passaggio finale dell’omelia, ha raccomandato di «portare Dio dentro le nostre famiglie, dentro le relazioni quotidiane, nel rapporto con i figli, nei legami coniugali, nell’attenzione e nella cura degli anziani».
Ha attinto ampiamente alla parabola del Padre misericordioso, il cardinale vicario, per suggerire di riscoprire cosa significa vivere la figliolanza ed evidenziare quanto deformata sia spesso la nostra percezione della paternità di Dio. Non si tratta di contrapporre i due fratelli, ha spiegato, ma di cogliere la medesima fatica che entrambi vivono. Essi perseverano in un equivoco, un malinteso: da un lato, quello secondo cui «Dio sarebbe il nemico della nostra libertà, l’ostacolo da rimuovere per sentirci finalmente artefici della nostra esistenza», dall’altro quello per cui Dio sarebbe una figura dispotica che esige una obbedienza servile, senza amore. Il rapporto che il Signore vuole stabilire è pertanto quello in cui «essere figli non è una condizione guadagnata o meritata, ma un dono».
È l’abbraccio senza reticenze, quello del Padre, fondato su tenerezza, compassione e «speranza incrollabile», capace di restituire dignità, ha insistito ancora il cardinale. Sempre alla luce del racconto dei due figli, nel Vangelo di Luca, Reina ha osservato, con consolazione grande: «Quelle braccia aperte sono la porta santa. Non importa quanto lontani siamo andati, non è rilevante cosa abbiamo fatto, sprecato o rovinato. Nel momento in cui abbiamo deciso di tornare non troveremo mai una porta chiusa, ma un abbraccio che accoglie e benedice». E ha proseguito: «Da quelle braccia aperte impariamo a essere Chiesa, a divenirne il sacramento, famiglia del Dio che libera la nostra libertà verso il bene». Quindi, l’esortazione a entrare con fiducia, per gustare e contemplare la bontà del Signore, sperimentarne la gioia e diventare «instancabili seminatori di speranza e costruttori di fraternità».
Ed era questo, in fondo, l’auspicio registrato tra i pellegrini in questo inizio giubilare: «Che ci doni la speranza e di poter portare la sua Parola in mezzo alle persone», diceva una donna del nord Italia. «Venire qui per liberarci da tutti i nostri pesi, legacci e vincoli interiori e imposti dalla società» era il commosso parlare di un’altra distinta signora nel piazzale antistante la basilica appena rinnovato dall’amministrazione capitolina, con ampie strisce di prato e grandi fontane a raso.
Religiose e religiosi, madri anziane e figli, giovani famiglie, studenti e turisti da varie regioni del mondo: un cuore pulsante ha gioito, condividendo l’apprensione per le sorti del pianeta dove le guerre sono sempre più cariche di cupa minaccia e di morte. «È fondamentale esserci, per cambiar vita, perché siamo chiamati alla santità», diceva una suora dal Messico. «È importante per noi — testimoniava una coppia newyorchese con quattro bambini — perché senza Dio non si fa niente». È un po’ l’eco delle parole di Reina: «Non ci salveremo da soli ma come famiglia e allora è la fraternità che dobbiamo coltivare fino all’estremo delle nostre forze».
di Antonella Palermo