Betlemme tra sofferenza
Qualche debole segno di speranza si affaccia sul Natale senza luci di Betlemme. La città di Gesù vive le seconde festività natalizie dall’inizio della guerra a Gaza. L’anno scorso la mestizia si accompagnò ad aspre tensioni che pregiudicarono la possibilità di qualche ora di serenità e speranza. Quest’anno le ricorrenti voci di un imminente tregua a Gaza potrebbero ispirare sentimenti e relazioni un po’ più fiduciose. Così come è stato anticipato il 1° dicembre quando il custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, ha fatto il suo ingresso a Betlemme per iniziare il tempo di Avvento. La mattina del 24 sarà invece il patriarca di Gerusalemme dei Latini, cardinale Pierbattista Pizzaballa, a fare il suo ingresso a Betlemme. Come da tradizione, attraverserà a piedi il centro della città, accompagnato da due ali di folla, dagli scout e dai religiosi che vi vivono. La sera celebrerà la tradizionale Messa della notte nella chiesa parrocchiale di Santa Caterina, alla presenza dei rappresentanti delle istituzioni locali, palestinesi e anche diplomatiche.
Anche quest’anno non sarà presente, per motivi di sicurezza, il presidente dello Stato palestinese, Mahmoud Abbas, che pure presenziava alla celebrazione prima dello scoppio della guerra e come faceva prima di lui, ogni anno, Yasser Arafat.
A pochi metri di distanza da Santa Caterina, all’interno della grotta della Natività, sull’altare della mangiatoia, la messa di mezzanotte sarà invece celebrata da padre Francesco Patton, insieme ai frati della Custodia di Terra Santa e ai cristiani locali. Una terza messa della notte viene poi in genere celebrata al Campo dei Pastori dal nunzio apostolico, arcivescovo Adolfo Tito Yllana, alla quale partecipavano fino a due anni fa molti dei pellegrini che affollavano Betlemme nel periodo natalizio. Ora non solo non ci sono pellegrini ma diminuiscono anche i cristiani locali. «Dall’inizio della guerra circa novanta famiglie cristiane hanno lasciato Betlemme», spiega padre Ibrahim Faltas, vicario custodiale: «È una grande ferita per la nostra comunità. Ma come possiamo validamente opporci a questo? Le famiglie che hanno figli pensano al loro futuro, che qui è compromesso fin dalla nascita. Chi può se ne va. Ma non è giusto. Come dice Papa Francesco, c’è sì un diritto a migrare ma ancor più c’è un diritto a restare».
In effetti il problema del Natale a Betlemme non è certo dato dall’assenza di luminarie, stelle o alberi di abete. Il problema vero è il clima oppressivo, già preesistente, che si è accentuato dal 7 ottobre 2023. Niente pellegrini significa niente reddito per tante famiglie che di turismo ricettivo vivevano. Tutte le botteghe di artigiani del legno di ulivo e della madreperla che si trovano lungo Milk Grotto Street, sul lato meridionale della basilica, sono serrate. «Ci sono circa trenta artigiani che abitualmente lavorano per noi realizzando presepi e statue di legno che vendiamo tutto l’anno, perché a Betlemme per i pellegrini è Natale tutto l’anno», racconta Rony Tabash, che conduce il negozio di oggettistica religiosa più antico e popolare di Betlemme, «ma da quindici mesi non lavorano e nelle loro famiglie non entra alcun reddito». Malgrado le difficoltà le famiglie cattoliche non rinunciano ai loro costumi e tradizioni: «Un grande ruolo in queste festività lo svolgono gli scout — racconta George, un giovane ingegnere cattolico che lavora nell’industria ricettiva — perché, oltre ad animare con la musica e le cornamuse la processione d’ingresso del patriarca, aiutano a preparare i festeggiamenti in famiglia, mamme e nonne a cucinare, e soprattutto si prendono cura dei più anziani. Quest’anno però la processione sarà senza musica, così come non ci saranno luminarie per strada e nella piazza della Mangiatoia. Su quella piazza ci ritroveremo dopo la messa di mezzanotte per scambiarci gli auguri, tutti insieme come fossimo un’unica grande famiglia».
Non è molto diverso da quanto succede in Europa. Anche qui la mattina del 25 dicembre quando ci si sveglia si scartano i regali che ognuno trova sotto l’albero. Poi c’è il grande pranzo, che può durare anche ore. «Si mangia del pollo arrostito sulla brace o della pecora infarcita — riprende George — o anche del riso cucinato con aglio, carne di pecora e yogurt. Poi i dolci: quelli tipici natalizi sono fatti di farina di semola con nocciole, pistacchi e datteri, o i biscotti di zenzero oppure quelli che noi chiamiamo ghreibeh, cioè biscotti di burro pieni di noci. Si mangia bevendo vino bianco locale e si digerisce con qualche superalcolico ma se ci sono, e spesso ci sono, amici musulmani si offrono loro dei succhi di frutta. Perché è tradizione che dopo il pranzo si vada in giro a visitare amici e a giocare con loro a bingo. Ai bambini si fanno trovare i regali di Santa Claus sotto l’albero ma agli anziani si regalano soldi perché qui la vecchiaia non è tutelata da una buona social security».
Sono giorni in cui si tira un sospiro. Giorni in cui si sperimenta un’ordinarietà serena che qui non esiste. «Del Natale portiamo a casa — conclude George — soprattutto quel coro di angeli che nella notte cantano e promettono “pace in terra agli uomini amati dal Signore”, e noi continuiamo con ostinata speranza ad attendere la pace».
di Roberto Cetera