Hic sunt leones
In questi giorni le testate giornalistiche di mezzo mondo hanno fatto a gara per avere notizie da Kenge, una città della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), capoluogo della Provincia di Kwango. Stiamo parlando, a scanso di equivoci, di una delle tante periferie del mondo dimenticate da tutto e da tutti. Ed è proprio questo il paradosso. Si parla solitamente di queste terre solo in certe occasioni, come in questo caso la notizia di un virus non ancora isolato e identificato.
Ma andiamo per ordine. L’ex Zaire (si chiamava così la Rdc durante il regime del defunto Mobutu Sese Seko), è un crogiuolo di popoli con straordinarie culture ancestrali — oltre 100 milioni gli abitanti divisi in trecento principali etnie — attraversato da immense foreste equatoriali, tra cui primeggiano i legni più pregiati, quali l’ebano e il mogano. Per non parlare dei suoi grandi fiumi o delle immense ricchezze del sottosuolo: dal cobalto al rutilio, dai diamanti al petrolio… Si tratta delle risorse che fanno di questo Paese, stando alla narrazione di un insigne gesuita del calibro di padre Rigobert Minani, «uno autentico scandalo geologico» e che sono state al centro delle guerre che dal 1996 al 2003 (con penosi strascichi fino ai giorni nostri) hanno insanguinato l’ex Zaire, provocando milioni di morti. Gli interessi economici stranieri da sempre hanno rappresentato un fattore altamente destabilizzante per il Paese. Per inciso, la zona dove si manifestato il misterioso virus è interessata dal conflitto Yaka-Teke con le milizie Mabondo attive a nord di Kenge. È dunque chiaro che la Repubblica Democratica del Congo potrebbe essere davvero un Paese di nababbi, anche se poi, è afflitto da un mix di cronica povertà, debito alle stelle, corruzione, guerre e violenze.
Di questa cronaca “nera” — è un eufemismo — è stato irrilevante l’interesse, sia della stampa sia della diplomazia, con praticamente unica eccezione quella della Santa Sede, con rafforzata determinazione dopo il Concilio Vaticano II, a sostegno del magistero dei Papi che si sono succeduti, da Paolo VI a Francesco. Per stare solo a quest’ultimo, alcuni dei nostri lettori ricorderanno che durante il suo viaggio apostolico di quasi due anni fa nella capitale della Repubblica Democratica del Congo, Kinshasa, stigmatizzò l’inganno dei signori della guerra senza che alle sue parole il consesso delle nazioni desse alcun seguito.
Nel suo primo discorso, Papa Francesco sottolineò come il Paese abbia «una geografia ricca e variegata», ma anche «una storia tormentata dalla guerra» e caratterizzata da «terribili forme di sfruttamento, indegne dell’uomo e del creato». Quelle parole, cariche di evangelico patos, servirono a dare voce a chi voce non ha. Il continente africano, disse il Papa, «non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare», ma «sorriso e speranza» del pianeta. L’Africa, precisò è «come un diamante, le sue facce sono numerose, riflette la luce, è preziosa. Deve esserlo anche agli occhi del mondo, le cui mani avide e bramose di potere e denaro hanno troppo a lungo soffocato, e dalle mani e dai cuori degli africani deve partire quel riscatto che metta al centro il vero sviluppo umano, una diplomazia dell’uomo per l’uomo».
Messaggio, dunque, chiaro e diretto, che ha trovato risonanza a livello massmediale nel corso del viaggio papale, per essere poi relegato nel dimenticatoio dei cosiddetti benpensanti. E dire che il Pontefice non ha mai perso occasione di ribadire le stesse verità durante vari interventi, tra i quali il tradizionale incontro annuale con le delegazioni diplomatiche accreditate presso la Santa Sede. Sta di fatto che ogni qualvolta si manifesta da quelle parti un’epidemia, poco importa che si tratti di Ebola o del virus Mpox, meglio conosciuto come il vaiolo delle scimmie, ecco che allora si scatena il circo mediatico. Ed è quello che sta avvenendo in questi giorni con l’allarme provocato da uno sconosciuto agente patogeno a Kenge e dintorni.
L’epidemia dura da un mese e mezzo ed i morti accertati (mentre scriviamo) nei presidi sanitari sono 27 su 382 contagiati. Altri 44 decessi sono avvenuti nei villaggi limitrofi, ma senza una verifica della diagnosi, per un totale di circa 70 morti in un’area molto vasta. Naturalmente, come di consueto, è lievitata la preoccupazione a livello internazionale ed è scattato l’immediato coinvolgimento degli uffici regionali dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e alcuni Paesi hanno alzato il livello di attenzione sulla malattia. I disturbi accusati dalle persone contagiate — soprattutto i più giovani e anche i bambini — sono febbre, mal di testa, mal di gola, tosse e difficoltà respiratorie, tipici delle sindromi influenzali e parainfluenzali. Il quadro clinico comunque è accompagnato e aggravato da una grave anemia.
Viene, pertanto, spontaneo porsi una domanda: i grandi attori internazionali non potrebbero fare lo sforzo di chiedersi se non sia giunto il momento di aiutare l’Africa, particolarmente i Paesi della fascia subsahariana, a creare le condizioni per azioni preventive ed efficaci di contrasto non solo alle epidemie, ma anche a tutto ciò che determina il sottosviluppo di questo continente? Ecco che allora tornare indietro con la moviola del tempo può risultare utile. I meno giovani tra quei suddetti lettori, forse, ricorderanno l’entusiasmo iniziale dopo la Conferenza internazionale sulla salute di Alma-Ata del 1978 che spinse molti Paesi a sostenere strenuamente il principio di «Sanità per tutti», con politiche fortemente orientate alla comunità e l’impegno da parte di molti governi ad incoraggiare e supportare servizi sanitari gratuiti per le popolazioni locali.
Purtroppo, però, quest’entusiasmo si spense presto, verso la metà degli anni Ottanta. A partire dal Financing Health in Developing Countries pubblicato nel 1987 dalla Banca Mondiale (Bm) e poi con il Report Investing in Health del 1993, l’attenzione si spostò definitivamente verso questioni di presunte sostenibilità ed efficienza, con forti pressioni verso riduzioni dei costi. La Bm cominciò a proporre politiche a suo dire concrete di riduzione della povertà e miglioramento della situazione sanitaria mondiale, promuovendo in modo sempre più esplicito la privatizzazione dei servizi sanitari e ponendo gli interessi commerciali come motivo dominante di decisioni sanitarie, con forte sostegno alle politiche orientate al mercato, aumento degli investimenti privati e riduzione dei servizi pubblici offerti con conseguenti problemi di bilanciamento tra gli obbiettivi di efficienza ed equità. Da allora le idee neoliberiste, inserite in un contesto di crescente globalizzazione e declino dello stato sociale, hanno portato ad acuire le diseguaglianze.
La verità è che andando al di là di visioni ideologiche, due sono le vie alternative per eliminare le trappole della povertà: la prima consiste nell’attuazione di misure volte ad accrescere il benessere aggregato dell’economia, sostenendo che la crescita della base di capitale faccia aumentare la domanda di forza lavoro; la seconda prende in considerazione misure redistributive ed evidenzia che la distribuzione non dev’essere relativa alla base di capitale, bensì dell’output, vale a dire la quantità di beni e/o servizi ottenuti da un’attività di produzione. Come dimostrato, già nel lontano 1986, da Partha Dasgupta e Debraj Ray su «The Economic Journal», in condizioni di estrema povertà, soltanto attraverso determinate politiche di redistribuzione delle risorse è possibile incidere sulla povertà e aumentare l’output aggregato. Tale risultato deriva dall’intuizione che, con un livello minimo di reddito che consenta di sfamarsi, una persona priva di risorse, che altrimenti non troverebbe alcun tipo di lavoro, potrebbe lavorare a fronte di un salario inferiore a quello di mercato con una produttività adeguata, risultando quindi attraente nel mercato del lavoro.
Questo mostra come gli obbiettivi di riduzione della povertà e crescita dell’output non siano necessariamente in conflitto tra di loro. Purtroppo, si è scelta la prima via più rispondente alle logiche della massimizzazione dei profitti. In considerazione del fatto che oggi la finanziarizzazione dei mercati ha accresciuto la speculazione, innalzato a dismisura i debiti e penalizzato le economie nazionali, penalizzando il welfare — inclusi i sistemi sanitari come quello congolese — c’è davvero bisogno di cambiare le regole del gioco.
Come scritto dal Santo Padre nel suo messaggio ai partecipanti alla Cop29 sulla lotta al cambiamento climatico (ma vale per tutti gli aspetti della tutela dell’uomo), prima che di magnanimità è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: «C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi». Più chiaro di così.
di Giulio Albanese