Nella strada di Kabkabiya, che ospita il mercato settimanale, le tracce di sangue sono ancora lì, in tragica evidenza. Domenica scorsa sul distretto dello stato sudanese del nord Darfur sono piovute dal cielo decine di bombe che hanno fatto una mattanza: il bilancio aggiornato delle ultime ore parla di 127 persone che hanno travato la morte mentre erano intente ad affollare i banchi che esponevano povera mercanzia o si trovavano nelle zone limitrofe.
La guerra tra l’esercito governativo e le forze paramilitari del gruppo armato Rfs (Rapid Support Forces), che dura ormai da venti mesi, nelle ultime 24 ore non ha risparmiato neanche Zamzam, il più grande campo profughi di tutto il paese costruito alle porte di Al Fashir, capitale del Darfur settentrionale: secondo le poche e frammentarie informazioni che si riescono ad ottenere, anche qui ci sarebbe stata una mattanza, almeno nove morti, in maggioranza donne e bambini. E potrebbe salire anche il bilancio del bombardamento sulla capitale del Paese, Khartum, dove martedì scorso sono stati uccisi 15 passeggeri di un bus di linea mentre altre decine di passanti sono rimasti gravemente feriti.
«Quella che il Sudan sta vivendo è la più grave crisi umanitaria mai registrata fino ad ora» denuncia l’International Rescue Committee, organizzazione non governativa con sede a New York. Nel suo ultimo rapporto, intitolato Emergency Watchlist 2025, l’organizzazione, che si occupa di aiuti umanitari, soccorso e sviluppo in tutto il mondo, mette in evidenza che «dall’inizio del conflitto sono state uccise migliaia di persone mentre gli sfollati hanno raggiunto quota 12 milioni, 9 dei quali in movimento all’interno della nazione. Tutto complicato dalla carestia che sta interessando gran parte dei villaggi e delle città».
Gli sfollati che possono, tentano di superare il confine del Sud Sudan o del Ciad, spesso mettendo a repentaglio la propria stessa vita. I dati dell’Unchr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni unite, fotografano una situazione in completa e costante evoluzione: solo nell’ultimo fine settimana, i sudanesi che hanno scelto di varcare la frontiera con il Sud Sudan sono stati oltre 20.000, triplicando così gli arrivi giornalieri delle settimane precedenti. Anche in Ciad gli arrivi non si fermano: finora, dall’inizio delle ostilità, si sono registrati oltre 720.000 profughi, numero che alla fine dell’anno potrebbe sfiorare il milione. Oltre alle bombe, però, ci sono anche malattie e fame. L’Onu stima che almeno 2,5 milioni di persone — delle quali 3,7 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni e 1,5 milioni di donne incinte —stanno subendo una carenza di cibo cronica. Situazione che ha favorito il diffondersi di un’epidemia di colera dilagante che sta interessando diverse zone del Paese. E potrebbe estendersi ulteriormente.
Sul fronte della diplomazia, nonostante il conflitto sia quasi ignorato dai più importanti media internazionali, c’è da registrare la visita che lunedì scorso il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul-Gheit, ha fatto a Port Sudan con l’obiettivo dichiarato di «sostenere il governo ed il popolo sudanese in questa fase critica». Sul tavolo di discussione con il generale Abdel Fattahal Burhan, capo del Consiglio sovrano e comandante delle forze armate sudanesi, si è subito posto il rispetto dell’accordo di Gedda per «facilitare l’aiuto umanitario, ritirare le armate dell’Rfs dalle aree civili di Khartum, porre fine all’assedio di Al Fashir e fornire sostegno alla popolazione».
di Federico Piana