Il Congresso internazionale sul futuro della teologia “Eredità e immaginazione”
Si chiude oggi alla Pontificia Università Lateranense il Congresso internazionale sul futuro della teologia «Eredità e immaginazione», promosso dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione. Dopo l’udienza pontificia di ieri mattina ai circa 500 partecipanti, nel pomeriggio il cardinale prefetto dell’organismo organizzatore ha introdotto i lavori con l’intervento che pubblichiamo di seguito integralmente.
Nell’aria c’è un soffio di novità che ci rallegra tutti. Con un numero così alto di teologi e teologhe, che riflettono nel loro insieme il poliedrico volto ecclesiale, questo incontro ha qualcosa di storico. Ma più che la monumentalità di un evento che passa, noi vogliamo la fraternità che resta, concretizzando quello che Papa Francesco definiva nella sua programmatica Esortazione apostolica Evangelii gaudium, «il sogno missionario di arrivare a tutti» (n. 31). Vogliamo ascoltare tutte le voci: tutti sono importanti per il disegno d’orizzonte della speranza, in questa stagione storica piena di sfide sotto tanti punti di vista. Non vogliamo soltanto essere in tanti, vogliamo soprattutto qualificare questa esperienza di cammino comune e di ascolto sinodale come una profezia condivisa.
Anche per questo il Comitato scientifico del Congresso è rappresentativo delle principali macroaree geografiche, culturali e teologiche. In proposito, desidero ringraziare vivamente i membri del Comitato scientifico internazionale, che con il segretario del Dicastero, monsignor Giovanni Cesare Pagazzi, da quasi un anno hanno lavorato per allestire questo momento.
Un grazie di cuore anche a tutti gli oratori che ci onorano della loro presenza e competenza e agli osservatori invitati che contribuiranno alla messe matura di questo convegno. Grazie anche alla comunità di lavoro del Dicastero per la cultura e l’educazione, per le energie profuse a favore di questo congresso. Un ringraziamento speciale alle dottorande e ai dottorandi che svolgeranno il compito di facilitatori nei tavoli di studio. Essi — e la loro generazione — saranno forse gli eredi immediati di questa esperienza sinodale e ci illumina il cuore immaginare il futuro che loro accenderanno.
Ringraziamo infine, e penso davvero che lo facciamo tutti insieme, il Santo Padre, che stamattina ci ha accolto, rivolgendoci parole incoraggianti. Non è poca cosa il coraggio. Nel suo Trattato di armonia, uno dei libri che ha segnato il Novecento, il compositore Arnold Schönberg affermò che «soltanto chi ha coraggio è un artista». Possiamo dire lo stesso delle teologhe e dei teologi. C’è un coraggio insito nella pratica della teologia e nel pensare che questa forma di sapere può essere una risorsa per la chiesa e il mondo.
In questi giorni siamo chiamati a immaginare come possiamo diventare eredi della vitale tradizione che ci nutre e come possiamo abbracciarla convintamente per immaginare con passione nuove possibilità di presenza della teologia nella contemporaneità. Lo faremo — come ci indica il programma del congresso — grazie a un trittico: il “dove”, il “come” e il “perché” della teologia.
Seguendo questa architettura concettuale condividerò con voi alcune brevi riflessioni introduttorie. Cercherò innanzitutto di mettere in luce il dove e il perché che ci portano qui, a Roma, nel quadro di un dialogo tra attori teologici di tutto il mondo, promosso dal Dicastero. E vi presenterò in secondo luogo il come iscritto nel binomio memoria e immaginazione, che abbiamo scelto come principio guida del percorso da fare insieme.
I. Il dove e il perché
Esattamente in questi giorni, 59 anni fa, l’8 dicembre 1965 si concludeva il Concilio Vaticano ii . Celebreremo l’anno prossimo il sessantesimo anniversario di questa data così importante per la Chiesa contemporanea.
Uno dei cambiamenti più significativi che sostanziano l’aggiornamento teologico e pastorale, liturgico e culturale, messo in opera dal Concilio Vaticano ii , è l’abbandono di un’idea di Chiesa chiusa, sottratta all’interrogazione propria della comprensione e alla incompiutezza propria della credenza. Questo modello — come sappiamo — si era irrigidito progressivamente, come contrappunto a quelle forze sistemiche della modernità che pretendevano di deculturare la fede, riducendola alla sfera del non razionale, dell’esistenza privata o dell’irrilevanza sociale.
In questo quadro preconciliare, decisamente difensivo, l’annuncio evangelizzatore si pensava e si presentava come comando, e la credenza si determinava in norma morale incondizionata. L’immagine pubblica che purtroppo diventò allora predominante fu quella di una Chiesa in conflitto con il mondo. E, così, la Verità di cui parla la Chiesa emerge come un oggetto considerato dall’esterno come sempre di più enigmatico, incompatibile con i paradigmi della razionalità o con le forme delle scienze. L’individuo moderno non si sente sufficientemente rappresentato nel discorso ecclesiale, rivendicando una mediazione ermeneutica più estesa tra Verità di fede e intelligenza dell’esperienza umana. Sappiamo quali costi ha avuto questo ripiegamento difensivo e bellicoso in termini di perdita di fecondità culturale della presenza cristiana nella società: il linguaggio del decreto funziona nelle aule giudiziarie ma non in quelle universitarie. La verità è accessibile non come coercizione ma come adesione di libertà:
«la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore» (dh 1), scrivono i Padri Conciliari nel paragrafo di apertura della Dignitatis Humanae.
È ispiratore riconoscere che la Chiesa che esce dal Concilio insegna, non impone. Testimonia e condivide, non nega e vieta per automatismo. Libera, non lega, affidandosi alla «forza della Parola di Dio, [....] seguendo l’esempio di mansuetudine e di modestia di Cristo» ( dh 11).
Sappiamo che alle volte questa mitezza e modestia viene letta come una forma di debolezza, arrendevolezza e cedimento. Ma impariamo a non avere paura quando ci esponiamo alla libertà dello Spirito, sapendo che sarà Lui a fecondare di verità il cuore e la mente degli uomini, colmandoli della sua grazia.
Il servizio del Magistero e della Teologia nella mediazione della Verità di fede non viene per questo meno. Semplicemente anch’esso si aggiorna, esercitando innanzitutto un servizio di comunione e di unità. Unità e comunione tra i fedeli, tra le loro esperienze interpretative. Unità e comunione con la Parola nella sua trasmissione scritturale, sacramentale e nella continuità storica della Tradizione. Papa Francesco ha ricordato l’affermazione di Newman: «Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni». Per concludere poi con queste parole: questo «è un invito a scoprire il moto del cuore che, paradossalmente, ha bisogno di partire per poter rimanere, di cambiare per potere essere fedele».
Vi invito per questo a reinterpretare anche il dove e il perché del nostro incontro: Roma non è il centro cui dovete assimilarvi, perdendo la specificità della vostra particolarità. Non è il vertice a cui dovete sacrificare la vostra libertà di ricerca, ma è la memoria viva del vostro essere Chiesa: è l’invito appassionato a pensarvi ecclesialmente, sinodalmente, come comunità cattolica, il cui carisma di unità è carisma di riconciliazione e convergenza per tutto il genere umano.
Il nostro servizio nei vostri confronti è essere testimoni e rappresentanti dell’ecclesialità in cui la libertà della vostra ricerca si fa sacramento di comunione, in cui l’amore per la verità che ha il proprio santuario nell’autonomia della coscienza pronuncia l’universalità di questa adesione e la sua potenza unitiva per tutti gli uomini.
Viviamo tempi terribili: la guerra e la povertà flagellano la terra, i conflitti sociali e politici scavano fratture sempre più profonde nella società, la violenza avvelena i rapporti tanto sul piano privato che su quello pubblico. La nostra missione di cristiani in questo momento storico è più che mai quella di fare della nostra ecclesialità un sacramento di pace, riconciliazione e convergenza. Non cerchiamo l’unanimismo. Non pretendiamo che neutralizziate il dissenso, le sfaccettature del poliedro delle differenze. La discussione, il confronto, la dialettica sono il sale della conoscenza, il suo motore. Una teologia unanimista è una teologia paralizzata. Incapace di diventare generativa. Ma vi chiediamo di correre insieme il rischio di obbedire allo Spirito, che è fonte di comunione, che insegna la tessitura dell’armonia, ricomponendo le differenze in pluralismo convergente e non in reciproca estraniazione.
La differenza tra il filosofo e il teologo non è soltanto che quest’ultimo esplora razionalmente una verità che ha già trovato nella fede, ma che egli la riconosce come corpo sacramentale di fraternità con la comunità ecclesiale, mediatrice di comunione fraterna con tutti gli uomini. Il teologo si pensa libero ma mai solo, mai autosufficiente: sempre bisognoso e datore di una comunione nella verità che non è meramente ideale, ma storicamente reale, ecclesialmente sacramentale.
Chiamarvi a Roma è, dunque, offrirvi un luogo carnale e simbolico di memoria viva di questa dimensione ecclesiale della vostra ricerca, della vostra mediazione ermeneutica. Mostriamo al mondo che la storia non è Babele, regno della divisione, del caos, della sopraffazione. Diamo al mondo il segno della grazia della Pentecoste, della possibilità dell’intesa del diverso, della pace che nasce quando non cerchiamo di vincere, di avere la meglio, ma siamo disposti all’ascolto e all’ospitalità, umani, spirituali e anche intellettuali.
Siete — in verità, siamo — qui per costruire, insieme, una visione comune, in cui camminare sinodalmente nella pace e nella verità del Signore. È questa la sinodalità: né unanimismo né maggioritarismo, ma fraternità consapevole ed efficace, che produce comunità nella pluralità delle voci, dei contesti, dei carismi.
Affidiamo a voi il compito di costruire proposte di concrete soluzioni istituzionali, prassi scientifiche e pedagogiche, esperienze spirituali, indirizzi riflessivi, letture teologiche e teologali capaci di illuminare l’umanità del nostro tempo. Da parte nostra, offriamo l’impegno a proteggere e vivificare nel vostro lavoro quella comunione e unità ecclesiale che, come cristiani, siamo chiamati tutti a incarnare, che, come Pastori, siamo chiamati a custodire.
Il nostro incontro si ispira perciò allo stile sinodale, auspicato dal Santo Padre Francesco per tutta la Chiesa e quindi pure per la teologia. Anche per questo, il documento finale della xvi Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi —Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione missione — ritiene necessaria la lettura teologica delle esperienze concrete e una formazione teologica all’altezza di questo compito (cfr. n. 143). La metodologia di questo congresso intende offrire un esercizio di sinodalità teologica. Forse ad alcuni apparirà insolita, ma facilita la costruzione di un pensiero molteplice e comune. Riserverà certamente delle sorprese.
Il nostro intento è che questo Congresso sia il primo passo di un cammino comune. La Costituzione Apostolica Praedicate evangelium sulla Curia Romana incoraggia e sostiene questo nostro desiderio (cfr. art. 161). Così pure la recente Plenaria del Dicastero ci ha rincuorati a renderlo operativo. Siamo qui per ascoltarci reciprocamente su come ereditare il patrimonio teologico delle generazioni ecclesiali di ieri, affinché diventi immaginazione e spinta creativa per quelle di oggi e di domani, onorando quanto richiesto dal Santo Padre nel proemio della Costituzione apostolica Veritatis gaudium. Egli, infatti, sollecita le istituzioni accademiche teologiche a continuare la ricerca e a offrire luoghi e percorsi di formazione qualificata per i presbiteri, i religiosi, le religiose e i laici. Ma invita inoltre le stesse istituzioni, e la teologia innanzitutto, a trasformarsi in «una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo» (Veritatis gaudium, Proemio, n. 3). Questo «laboratorio culturale» metterebbe in luce l’apporto specifico della teologia nella creazione di nuovi paradigmi di razionalità, evitando la clandestinità culturale e la marginalizzazione universitaria di cui soffre la stessa teologia. La vostra consistente risposta al nostro invito già ci riempie di speranza. Ringrazio in anticipo per quanto riuscirete ad offrire per promuovere e sostenere il lavoro di questo Dicastero. Prima ancora del suo inizio, il Congresso ha già prodotto frutti considerevoli. Infatti ci sono arrivati più di 350 contributi in risposta al questionario che vi è stato inviato la scorsa estate. Insieme con quanto emergerà in questi giorni, saranno oggetto di studio, affinché le decisioni che il futuro ci chiederà di prendere risultino più argomentate e condivise.
II. Il come
Il come del nostro incontro si articola nel binomio memoria e immaginazione, che abbiamo individuato come linee guida di una ricerca teologica che sappia coniugare la capacità di futuro con la fedeltà a quel già dell’alleanza di Dio con il suo popolo, che nell’evento dell’incarnazione e risurrezione di Cristo si compie come dimensione di salvezza e redenzione escatologicamente operante nella storia, nel nostro presente.
Solo tenendo insieme queste tre dimensioni della nostra esperienza della storia della salvezza, solo tenendo insieme passato, presente e futuro, la nostra fede si iscrive fecondamente nel cammino del popolo di Dio, traducendosi in intelligenza di quello che è chiesto oggi alla Chiesa per essere segno e strumento di salvezza per tutta l’umanità.
Uno dei grandi problemi del presente è precisamente la progressiva disattivazione dei meccanismi culturali, sociali e antropologici che ci permettono di pensare e vivere la diacronia come storia, di costruire interpretazioni narrative e teleologiche che mettano in prospettiva il presente individuale e collettivo, permettendoci di articolare le nostre vite e il corso delle nostre società come un prima, un ora e un poi.
Il teologo, come ogni cristiano, è al tempo stesso storiografo, testimone partecipe del presente, e profeta: non colui che prevede il futuro, ma colui che lo vede come ciò che il presente può diventare se lo consegniamo alla potenza della grazia divina, se accogliamo il dono di salvezza del Signore. L’immaginazione che il cristiano è chiamato ad esercitare come responsabilità operativa, che il teologo è chiamato a convertire in intelligenza interpretativa, non è fantasia: non è il gioco arbitrario del desiderio, distaccato dalla realtà e dal possibile, ma è l’operoso mettersi in ascolto della potenza trasformatrice della Verità.
L’immaginazione del cristiano è sguardo critico che riconosce che il mondo non è come dovrebbe essere, che è segnato dal male, dal peccato, dalla sofferenza, ed è bisognoso di redenzione, ma al tempo stesso si dischiude come sguardo rigenerativo che riconosce i segni dell’avvento di questa redenzione, riconosce i sentieri da aprire perché essa si faccia strada nei cuori e nelle menti degli uomini, nelle vicende della storia. È sguardo non puramente contemplativo ma performativo che profeticamente riconosce che cosa possiamo fare di questo mondo se lo affidiamo alla promessa di salvezza di Dio.
Non sottovalutiamo, fratelli e sorelle, la potenza di questo sguardo profetico. Non sottovalutiamo la potenza trasformatrice di un’immaginazione in cui la memoria fedele della promessa si fa speranza di futuro per tutta l’umanità.
In questo spirito mettiamoci al lavoro, diamoci le mani. A ragione il poeta Charles Péguy scrisse che quando ci rifiutiamo di sporcarci le mani nella cura della vita finiamo ben presto per restare senza mani. È un fatto: troppe volte viviamo senza mani, la teologia vive senza mani… In verità, solo le mani che si danno si scoprono come mani, come operatrici del dono, come protagoniste della storia. Le mani che si danno odono finalmente il loro proprio idioma; capiscono che esse si compiono non come afasia, ma come linguaggio di comunione. La Chiesa ha bisogno delle vostre intelligenze, dei vostri cuori e delle vostre mani per diventare profezia condivisa.
di José Tolentino de Mendonça