Pubblichiamo di seguito, in una nostra traduzione italiana dall’inglese, l’omelia pronunciata dal cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi, lunedì 2 dicembre, festa dei Martiri inglesi, nel Venerabile Collegio Inglese di Roma.
«Noi siamo gli eredi della loro conquista, e godiamo a nostro agio di tutto ciò che essi guadagnarono con la morte». Queste parole si leggono alla fine del libro di Evelyn Waugh Edmund Campion, la sua biografia di uno dei santi e martiri inglesi che celebriamo oggi. Campion, come Ralph Sherwin e gli altri martiri inglesi, morì per vincere. La sua morte non fu invano, ma per una vittoria più grande.
Considero le parole scelte da Waugh, morire per vincere, particolarmente efficaci alla luce della votazione svolta e vinta la scorsa settimana, alla Camera dei Comuni del Regno Unito, della legge sulla morte assistita. 330 Membri del Parlamento hanno votato a favore della proposta di legge, permettendo ai malati terminali di essere assistiti nel porre fine alla propria vita. Il Regno Unito si è aggiunto a una serie di altri Paesi occidentali che rendono il suicidio legale e, verrebbe quasi da dire, da promuovere. Se Waugh, riferendosi a Campion, ha parlato di morire per vincere, quando si parla di questo voto del parlamento del Regno Unito potremmo invertire le parole di Waugh. Potremmo parlare di vincere per morire. Di fatto, è così che è stato presentato il risultato di questo voto storico: una vittoria per la morte assistita, una vittoria per la morte, una vittoria per morire.
Senza voler sminuire o ignorare il dolore e la sofferenza dei malati terminali, questa legge e la relativa votazione aprono una finestra sulla nostra cultura occidentale. La ricerca di significato dell’umanità viene sempre più scoraggiata, la mancanza di significato è la nostra «malattia per la morte», per usare un tropo di Kierkegaard, e morire è l’unica vittoria che possiamo ottenere — liberarci di questa vita priva di significato è l’unica vittoria che possiamo ottenere.
Non solo siamo gettati nella morte — per citare Heidegger —, ma la nostra unica vittoria è la morte. Da qui la vittoria di morire, dove la morte stessa è la vittoria.
Questo naturalmente non è in armonia con la nostra visione fondamentale, come cristiani, della vita e della morte. Parliamo di morte. Siamo i discepoli di un Signore che è morto su una croce. Il simbolo che ci identifica è quello di un uomo che muore. Oggi celebriamo dei martiri che hanno dato la propria vita, e li celebriamo nella loro morte. Tuttavia, non si tratta di una versione pre-moderna cristiana di morte assistita. Non è una vittoria per morire. È invece una morte per una vittoria più grande. Ripetendo le parole di Waugh: sono morti per vincere. Anche noi parliamo di morte e vittoria, ma è morte per una vittoria, per un fine più alto, senza rendere la morte stessa l’obiettivo e senza rendere la vita meno dolorosa, difficile e sconcertante.
Mi auguro che ciò che sto dicendo sia per voi un’ovvietà. Ma repetita iuvant. Penso che sia particolarmente importante ripetervi queste parole qui, in questa casa di formazione, che per tanti anni ha preparato persone a morire come testimoni del Signore, per cui c’è una lunga lista di martiri associati a questo collegio.
Penso e spero che non veniate più formati per morire. Ma in un certo senso la formazione riguarda anche la morte, una morte diversa da quella di Campion, Sherwin e gli altri, naturalmente. Ma che cos’è la formazione se non il graduale plasmare se stessi nella forma di Gesù Cristo? Un plasmare che comporta lasciare andare molte cose, un cambiamento del cuore, del comportamento, del pensiero e degli atteggiamenti. Lasciare alle spalle il vecchio sé per diventare simile a Cristo è un atto di morte. Ma la formazione non è mai una formazione per amore della formazione, bensì una formazione per o a qualcosa: per diventare sempre più simili a Cristo nel servizio della sua Chiesa. Se separate la morte dalla vittoria, la formazione dall’obiettivo, o la formazione diventa troppo pesante e voi diventate seminaristi e sacerdoti tristi e frustrati, oppure pensate di avere già raggiunto il vostro obiettivo, si insinua un atteggiamento da “saputello” e incominciate a pensare di sapere ciò che è giusto e che tutti gli altri hanno torto. Non c’è vittoria senza morte, così come non c’è morte senza vittoria.
Ma siete anche ministri, o futuri ministri, della Chiesa. Morte e vittoria, insieme, sono anche tratti distintivi della Chiesa. La Chiesa morente, nella sua morte, è una Chiesa vittoriosa. E la Chiesa vittoriosa è anche la Chiesa morente. Non c’è ecclesia triumphans senza ecclesia moriens. Purtroppo, al giorno d’oggi è molto facile disconnettere l’una dall’altra, avere una ecclesia moriens senza una ecclesia triumphans, e viceversa. Per alcune voci del mondo secolare, non c’è spazio per la Chiesa, sarebbe meglio se morisse, e se lo facesse in fretta. Ma anche alcune voci pessimiste interne alla Chiesa parlano di una Chiesa morente, come se nella Chiesa attuale fosse tutto sbagliato. Dal lato opposto, c’è chi è eccessivamente ottimista, come se nella Chiesa d’oggi rispetto al passato tutto fosse perfetto. Per alcuni è un’epoca buia, per altri un’epoca d’oro. Sbagliano entrambi, naturalmente. Fintanto che la Chiesa continuerà a sussistere nella storia, ci saranno cose nella Chiesa che dovranno essere comprese meglio, chiarite, riformate, ripensate. Siamo sempre in cammino verso l’ecclesia triumphans, e questo cammino include anche quella moriens, quella morente, la Chiesa che viene convertita (o riformata) in una versione migliore di sé. Ma ogni conversione della Chiesa sarebbe priva di significato, priva di senso, se non avesse il chiaro obiettivo di avvicinarsi di più, di diventare più simile alla Chiesa auspicata e voluta dal Signore. La riforma per amore della riforma, il cambiamento solo per seguire le ultime tendenze della società, non sarebbero molto diversi dal morire per amore della morte. Come sottolinea Papa Francesco, citando le parole di Yves Congar, o.p ., uno dei grandi teologi del Concilio Vaticano ii , «non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa».
Il messaggio che vi rivolgo oggi è semplice: guardate alla Chiesa che è venuta prima di voi e siate come quella Chiesa. La Chiesa, con i suoi santi, i suoi martiri, i suoi sacerdoti, i suoi fedeli, è sempre stata una Chiesa morente per una vittoria più grande. Possano coloro che verranno dopo di noi poter dire di noi le parole che noi diciamo di coloro che ci hanno preceduti: sono morti per vincere. Possano poter dire: «Noi siamo gli eredi della loro conquista, e godiamo a nostro agio di tutto ciò che essi guadagnarono con la morte».