· Città del Vaticano ·

Una “partita”
dagli esiti imprevedibili

epa11752880 A damaged helicopter of the Syrian Army at the Nayrab military airport, in Aleppo, ...
02 dicembre 2024

I lineamenti di quanto sta accadendo in queste ore in Siria (e di cui riferiamo sopra in dettaglio) sono ancora molto indefiniti.

Sembra che nessuno avesse previsto che nel giro di 24 ore i ribelli islamisti del Hts (Hayat Tahrir al-Sham) potessero occupare con Aleppo anche una parte del Paese, senza incontrare di fatto una decisa resistenza (sarebbero circa 370 le vittime, quasi tutte militari, al momento, e fuori della città).

Inoltre non è chiara la situazione reale in atto in queste ore a Damasco. Per tutta la giornata di ieri si sono rincorse voci non confermate di scontri anche all’interno delle forze governative.

La situazione ad Aleppo è di grande tensione, ci riferiscono i frati della Custodia di Terra Santa, che nel pomeriggio di ieri hanno subito il bombardamento di un’ala dell’edificio che ospita il “Terra Santa College”. Mentre i ribelli hanno rassicurato la popolazione e anche la componente cristiana circa le loro intenzioni, la preoccupazione rimane per i bombardamenti in sostegno delle truppe governative.

Circa un possibile nesso tra l’accordo di tregua raggiunto sul Libano martedì scorso tra Israele e Hezbollah e gli accadimenti di queste ore in Siria, i media israeliani sottolineano tutti l’obiettiva convergenza di interessi tra Stato israeliano e ribelli sunniti. I rifornimenti di armi alle milizie libanesi di Hezbollah da parte dell’Iran sono infatti fino ad oggi transitati anche attraverso il territorio siriano. Una partita dagli esiti oggi imprevedibili, dunque, che si gioca ben oltre i confini siriani, tra gli stati tradizionalmente coinvolti: Stati Uniti, Russia, Iran, Turchia ed Israele. Ma di cui il popolo siriano continua a pagare un prezzo pesante e tragico.

Un’impalpabile atmosfera di fiducia soffia invece sulla possibilità di una tregua finalmente a Gaza, ancorché non suffragata da alcun dato certo, a parte l’impegno dei negoziatori egiziani.

In Israele ha destato scalpore e critiche l’intervista rilasciata ad una televisione israeliana dall’ex ministro della Difesa, ed ex capo di Stato maggiore delle Forze armate israeliane (Idf), Moshe Ya’alon, il quale ha accusato il governo di Benjamin Netanyahu, condizionato dall’estrema destra, di «aver trascinato il Paese lungo il sentiero dell’occupazione, dell’annessione, e della pulizia etnica a Gaza». Ya’alon si riferisce al proposito espresso dai ministri di estrema destra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich di favorire una «migrazione volontaria» dei palestinesi da Gaza, e il ristabilimento di colonie israeliane sui loro territori. A sorprendere è soprattutto il fatto che Ya’alon sia anch’egli un politico di destra, è stato dirigente del Likud e ministro della Difesa di Netanyahu fino al 2016. L’Idf ha sempre motivato queste operazioni lamentando la ricostituzione di gruppi armati di Hamas nelle aree di Beit Lahia, Beit Hanoun e nel campo profughi di Jabalia, malgrado nei mesi precedenti avesse invece indicato l’avvenuta “bonifica” dalle forze dei miliziani in tutta l’area.

D’altronde, se questo pure fosse vero, certo non giustificherebbe la deportazione di centinaia di migliaia di civili. Netanyahu non ha mai sostenuto apertamente le ragioni dei suoi ministri dell’ultradestra circa il ritorno dei settlers israeliani a Gaza, ma in molti ne hanno criticato l’operato, sostenendo che i continui rinvii nei negoziati per una tregua, e la conseguente liberazione degli ostaggi israeliani, sarebbero dovuti alle insostenibili pressioni dei suoi alleati estremisti, che minacciano di far cadere il governo.

da Gerusalemme
Roberto Cetera