Due immagini e un detto di Gesù. Il detto spiega le immagini. La prima di esse è quella della “porta stretta”, usata proprio da Gesù, da colui che «da ricco che era, si impoverì» (2 Cor 8,9). Perché mai e a quale scopo? San Paolo, scrivendo ai Corinzi, risponde dicendo che lo ha fatto per loro (nel testo “per voi”). Ma è chiaro che il “voi” va al di là di quella comunità e raggiunge noi. Ha valore universale. Il suo farsi povero, scegliendo di proposito tale condivisione con tutti noi e in particolare con i poveri, è l’avvio di un processo di riscatto, di grazia e di salvezza. Ha un fine grande e consolante. Perché l’infinita grandezza di Dio si riversi su tutti coloro coi quali è diventato solidale nella loro povertà. L’immagine della “porta stretta”, a prima vista, sembrerebbe contraddire l’idealità universale della “porta santa” del Giubileo.
Ascoltiamo, però, Gesù che parla: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7,13-14).
Il contesto è il Discorso della montagna. È stato detto, a ragione, che qui Gesù, attraverso molti paradossi, insieme radicalizza e umanizza la Torah, la via sulla quale Dio chiama Israele a seguirlo. A chi si accontenta di una sua osservanza esteriore, formalmente ineccepibile, ma con il cuore e la mente lontani da quelli di Dio, Gesù dichiara una completa distanza da Dio. C’è un tipo di uomo religioso che coltiva una mentalità opportunistica, lontana dalla gratuità e dalla solidarietà, caratteristiche originarie di Dio. Non supera il “dare per avere”, la comoda pratica del contraccambio, naturale soltanto finché non si è conosciuta la bontà del Signore: amano solo quelli che li amano, e fanno del bene solo a coloro dai quali ricevono del bene (cf. Lc 6,32-34).
La porta larga è, in definitiva, quella di una vita basata sull’interesse. La porta stretta è Gesù stesso — Io sono la porta (Gv 10,7) — manifestazione dell’amore gratuito del Padre. È quella di chi ama anche quando non è riamato, disposto a dare tutti i suoi beni ai poveri pur di seguirlo, cosa impossibile al ricco che gli aveva chiesto quale radicalità gli mancasse ancora (cf. Mc 10,20-22). Su questa scia possiamo meglio comprendere anche la concisa espressione paolina: «Si è fatto povero per voi, perché diventaste ricchi per mezzo della sua povertà». Più esattamente «perché diventaste ricchi nella sua povertà». Una povertà scelta e per amore. Per amore dei poveri. È questa, dunque, la prima e fondamentale porta giubilare. «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9).
La seconda immagine che mi viene da evocare è quella del roveto ardente, quello attraverso cui Dio parla e affida a Mosè una chiara missione: la liberazione del suo popolo, popolo di poveri, di schiavi e di oppressi. È un roveto di spine e non un falò che consuma sacrifici a lui offerti. È un ardore incessante di liberazione e shalom, di salvezza e di gioia per quei poveri e i poveri di sempre. È l’anticipo di ciò che sentiamo da Gesù, che è la porta della salvezza, ma è la porta che contiene in sé proprio quelli che nella sua più celebre e impegnativa dichiarazione non sono solo con lui, ma sono lui stesso. Quelli con i quali egli si è identificato: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36).
È questa la porta giubilare. Sono i poveri in tutto il valore e il richiamo che viene loro da Cristo. Dio arde per loro, freme per la giustizia, manda come Mosè ciascuno di noi a prendere posizione nella storia di tutti.
È stretta dunque la porta? Lo è per coloro che hanno una visione ristretta della vita, una concezione della loro esistenza a proprio uso e consumo. Che pensano, forse, di aggiungere ai tanti beni materiali, anche quello giubilare come ulteriore guadagno. Accumulare pure grazie e indulgenze come denari. Se questi non imparano la restituzione, nemmeno dall’anno della redenzione, quello che riprende la pratica biblica del condono dei debiti e della distribuzione di quanto serve per vivere a chi ne è privo, essi varcheranno, forse, uno spazio “sacro”, ma non si apriranno alla Grazia, perché non si sono aperti all’amore.
Finché sarà blindata la porta del loro cuore, potranno attraversare tutte le porte sante che vorranno. L’egoismo li rinserrerà sempre più nell’anticamera del loro inferno di questa vita, che si sta preparando per quella futura. Se invece ci sentiremo finalmente feriti dalle spine che feriscono il Padre nel pensare ai suoi figli oppressi, cominceremo a pensare i suoi pensieri, «progetti di pace e non di sventura». Respireremo con i poveri l’aria nuova e fresca, che ci riempie i polmoni e il cuore, al di là di quella porta: una brezza leggera e radiosa, che immette in «un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).
di Francesco Savino *
* Vescovo di Cassano all’Jonio
Vicepresidente della cei