Il presepe
Il presepe io non l’ho mai fatto, a stento faccio l’albero di Natale. È un alberello piccolo che in poco si fa e in poco meno si disfa come tutte le cose della mia vita. Se dovessi proprio farlo un presepe non sarebbe mai come quelli napoletani, così pieni di personaggi che quasi senti il rumore, il chiasso, il chiacchiericcio di tutta quella gente lì assiepata ad attendere… attendere cosa? Nel mio presepe, invece, ci sarebbe la grotta, il mulino, la locanda, e nessuno dentro. Uno, almeno un personaggio ce lo devi mettere! borbotti mentre sistemi sulla cassapanca licheni, cortecce e un oggetto non identificato che ti ostini a definire la grotta. La sacra famiglia non mi piace, ti dico. Troppo perfetta, che pure che stanno in mezzo al freddo e al fieno puzzolente, quelli mica si lamentano, mica gridano: Ah infami! No, quelli sorridono, sorridono sempre, ma come fanno? Ti dirò, continuo io mentre tu armeggi coi licheni: A me tutta questa gente che sorride inizia a starmi sullo stomaco. E allora nel tuo presepe mettici solo i musoni, tanto quelli hai voglia quanti ne trovi!
Io sospiro mentre insieme tiriamo fuori dagli scatoloni i personaggi del presepe che stai allestendo in ingresso, come faceva mio padre. Ancora avvolte nella carta, ecco le statuine dell’ennesimo presepe, dell’ennesimo Natale, stanno lì e attendono. Ma cosa? Di essere scartate come succede a tutti noi prima o poi?
Svolgo un foglio di carta e, tra le mani, mi appare un pescivendolo, uno dei tanti comprimari del Grande Evento, un disgraziato che tutti gli anni tu piazzi a mille miglia dalla grotta e va beh che il pesce dopo tre giorni puzza, ma io penso: almeno un Natale questo disgraziato avvicinalo alla Sacra Famiglia, fagli vedere, e non solo credere, che Dio è nato, possibile che non lo capisci che alla lunga l’attesa stanca? Mi raccomando, dici fissando il tuo sguardo aquilino sulla statuina che tengo in mano, Non la rompere.
Subito poso il pescivendolo che non vedrà mai Dio e libero un’altra statuina dalla carta. Questa è nuova! ti dico. Tu scuoti la testa: Era finita nello scatolone delle cose da buttare, povera lavandaia, vedi com’è tutta scossa! Osservo la statuina salva per miracolo e penso: quest’anno ci sei, l’anno prossimo forse, quello dopo ancora non si sa, non si sa se ti troviamo più, se ti sei persa, smarrita, se ti sei rotta e allora addio per sempre mia cara lavandaia.
Mentre io faccio qui, mi dici togliendomi di mano la statuina miracolata, tu raccontami il tuo presepe. Ti volevo solo aiutare! dico. Lo so, però, aiutami parlando. Allora io mi siedo e inizio a dire: Nel presepe che non ho mai fatto non ci sono statuine di terracotta, ci sono persone. Accanto alla locanda c’è un suonatore di chitarra col codino e gli occhi azzurri che ogni lunedì sera, dopo il cambio delle lenzuola, viene da me e mi dice: Io sono pronto, quando vuoi. Allora io lo raggiungo lì, in fondo a un lungo corridoio percorso solo dalla luce del neon. Quando arrivo lui tira fuori dalla custodia la chitarra e io vedo quelle mani tozze e sporche, vedo la delicatezza incredibile con cui sfilano la chitarra dalla custodia come fosse una sposa, come fosse una bimba in fasce, come fosse una madre anziana, in quelle mani tozze e sporche vedo tutto l’amore che un uomo può dare. Valerio, io sono pronta, gli dico, al che l’uomo seduto su una sedia di plastica bianca inizia a suonare. Suona Guccini e i Pearl Jam. Suona sempre le stesse canzoni. Suona per me che sono il suo unico pubblico. Ieri, ti dico mentre sistemi con cura le lucine sopra ai licheni, ieri delle persone che lo conoscevano mi hanno detto che è morto. Ma chi, gli faccio, Valerio, il signore un po’ grosso, col codino e gli occhi azzurri, che suonava la chitarra? Loro non sapevano niente della chitarra, del resto sì: È morto un anno fa, mi hanno detto senza chiedermi: Mica lo conoscevi? No, Valerio non lo conoscevo. Di lui conoscevo solo quello sguardo bambino che gli fiocca sulle labbra quando, al termine di una strimpellata, io mi alzo in piedi e, battendo le mani come una pupetta, grido: Bravo Valerio, sei proprio bravo! A lui basta questo. No, a lui questo non bastava, se no non sarebbe morto così, ubriaco sotto una macchina, lo sapevano tutti che sarebbe successo, hanno detto quelli che lo conoscevano.
Mi dispiace, dici tendendomi l’ultimo filo di lucine come fosse una mano che vuole salvarmi dall’andare a fondo. Vuoi metterle tu le ultime luci? Io scuoto il capo. Se vuoi finisco da sola, mi dici, al che faccio per alzarmi e andarmene quando tu inizi a spargere… Farina sui licheni? dico, Ma sei impazzita! Tu fai un lungo sospiro: È neve, mi dici. E secondo te in Palestina c’è la neve? Ti mordi le labbra e poi come un uragano inizi a gridare: Mia nonna ce la metteva la neve e lei conosceva la Bibbia molto meglio di te e di me, stanne certa. Io, allora, lascio cadere il discorso — mai criticare la tua famiglia — e riprendo il mio racconto: Nel presepe che non ho mai fatto c’è poi la statuina di una donna che corre, ha gli occhi grandi e fieri e la tuta fucsia sempre indosso. La stessa tuta che tempo dopo vedrò indosso a una giovane africana di nome Destiny che ha otto fratelli e tutte le volte mi dice i loro nomi e di tutti e otto io ne ricordo solo uno: Florence. Ma perché mai una mamma nigeriana chiama la figlia Florence? Io la piccola Florence non l’ho mai vista se non in foto, sul cellulare di Destiny, e dopo qualche tempo anche Destiny non la vidi più, mentre la donna che corre la rividi un giorno in televisione, con gli occhi grandi e fieri che mi guardavano. Morta, dice il giornalista. Uccisa. Era da un po’ di tempo che non vedevo più Imen, così si chiamava, e pensavo: starà bene, avrà trovato un lavoro, una sistemazione, forse avrà ripreso a correre, come faceva prima quando vinceva gare a livello mondiale, e invece… Morta, ripetono i telegiornali, Uccisa. Non aveva neppure quarant’anni.
Ho ripensato spesso alla breve corsa che è stata la tua vita, Imen, a tutto quel correre verso traguardi sempre più avvilenti, sei passata dai primi posti sul podio agli ultimi posti nei dormitori, e alla fine hai raggiunto quest’ultimo traguardo e l’hai tagliato in anticipo su tutti noialtri. Nel presepe che non ho mai fatto Imen sarebbe là, con la sua tuta fucsia che corre verso… Non so se correresti verso la grotta oppure verso le stelle a cercare quei sogni che a un certo punto ti sono sfuggiti e non sono tornati più a cercarti, so che tu, Imen, correresti sempre troppo veloce perché noialtri possiamo raggiungerti. Chissà dove sarà adesso, dico sottovoce, Chissà dove sarebbe stata?
Tu ti fai troppe domande, borbotti dando il via alla fase tre del presepe: il posizionamento dei personaggi. Sai, invece, cos’era per me il Natale? Erano le storie che inventavo con le varie statuine. La più bella era la storia tra il pastorello e la donna che porta le banane. Nel presepe non c’è nessuna donna che porta le banane! Ma tu subito ribatti: Scusami, il tuo è un presepe che non hai mai fatto, popolato di persone che non ci sono più, e nel presepe della mia famiglia non poteva esserci una donna che portava le banane? Io respiro profondamente e dentro di me ripeto il mantra: mai criticare la tua famiglia.
Per me, riprendi a dire, quello era il Natale. Non la festa o i regali: le storie con le statuine. Io ti guardo scegliere con cura dove mettere ogni statuina per non lasciare nessun personaggio da solo e penso che per te, prima di ogni cosa, c’è la relazione, perfino tra dei pupazzi di terracotta. Anche nel presepe che non ho mai fatto c’è una storia d’amore, ti dico. Non lontano dal mulino c’è una coppia, sui sessanta, settant’anni, si chiamano Gina e Michele e vivono sotto al colonnato di San Pietro, e quando vado a trovarli di solito lui non è ancora tornato. Sta a lavoro, mi dice Gina, il che vuol dire che Michele sta facendo la questua. Quando vado da lei, Gina siede sempre su una coperta, ma un giorno, a differenza del resto dell’anno, intorno a Gina non ci sono solo piccioni affamati, un giorno tutto intorno a lei ci sono deliziosi presepi venuti da tutto il mondo. Gina li guarda intensamente. A che ti fanno pensare? le chiedo. Lei sorride e mi racconta la storia della sua vita: ogni momento, dall’infanzia al matrimonio, alla nascita dei figli è segnato da un presepe. Nel primo c’erano solo Giuseppe, Gesù e Maria, mi dice, neanche un pastorello, poi, quando mi sposai, arrivarono anche i pastori e pure i re magi, tutti e tre, anzi, ora che ci penso c’era pure il cammello, poi… Poi Gina fa una pausa e gli occhi le si illuminano… Quando nacquero i bimbini fu l’apoteosi della bellezza, un presepe così ricco e così grande che gli amici dicevano: Su questo ci dovrai pagare l’ ici !
Io sorrido e non ho il coraggio di dirle: ma questi figli che fine hanno fatto? Ma non lo sanno come vivete? Come siete ridotti? Perché non fanno nulla? Gina, le dico, quale personaggio del presepe vorresti essere? Lei sorride: Per questo devi aspettare mio marito, è lui che conosce queste cose, che ha la cultura. Sì, le dico, ma così per gioco, tu che personaggio vorresti essere? Lei ci pensa un po’ su: Una donna del paese che va a fare compere e si incontra con le altre donne e tutte sono così come sono, scoperte, senza paura che gli altri ti facciano del male anche se non sei al tuo meglio. Ma stando lì a fare compere, le dico, ti perdi Dio che nasce. Meglio così, dice lei, ultimamente con il Padreterno sto un po’ ai ferri corti. Gina fa una lunga pausa. Poi riprende: Un tempo, quando facevo il presepe, io mi mettevo là davanti, mi bastava guardarlo e zac, c’entravo dentro, ma adesso, dice sistemandosi sulla coperta sporca e puzzolente, su quel giaciglio più simile alla stalla di Betlemme che ai deliziosi presepi che la circondano, adesso senza una casa che presepe fai? mi domanda. E rimaniamo così, in silenzio, mentre attorno a noi fioccano le canzoncine di Natale.
Sto per andarmene quando sotto al colonnato ci raggiunge un vecchietto alto e arzillo. Come una farfalla Gina si spoglia dalla coperta e sfila dalle spalle dell’uomo il cappotto. Falle a Michele le domande, lui sa le risposte. Che personaggio del presepe vorrei essere? ripete il vecchietto mentre la moglie gli infila un grosso golfino coi bottoni uno sì e due no che immagino sia la sua vestaglia. Uno dei mori, dice il vecchietto. E perché? Perché sono i personaggi con i costumi più sontuosi, dice mentre Gina, con la mano, prende ad aggiustargli i capelli bianchi dietro le orecchie. Uno dei mori, gli domanda lei, O il re magio moro?
I due vecchietti vestiti di stracci che abitano una casa fatta di coperte si guardano negli occhi, lui stringe lei forte tra le braccia e nell’orecchio le dice: Il re magio moro. Perché è il più ricco, penso io, così ha i soldi per portarla via da questo inferno. Come se udisse i miei pensieri, il vecchietto aggiunge: Il moro perché è il più bello dei re magi. Allora lì, di fronte a me, non vedo più due vecchi abbandonati dal mondo, ma due giovani innamorati, che nonostante tutto, nonostante il freddo e la puzza, continuano ad amarsi. Chissà che fine avranno fatto, mi dico, Un giorno non li ho più visti: spariti, così.
Tu non mi ascolti e, terminato il presepe, attacchi al muro il cielo stellato. L’ultima statuina del presepe che non ho mai fatto, continuo a dire più per me che per te, è quella di una giovane minuta e senza denti che fuma la sigaretta. Quando parla di Gesù, lo descrive come un poveraccio che si sacrifica per noi che siamo poveri, ma non certo poveracci. Quando penso al presepe, dice Margherita con la sigaretta sempre in bocca, mi viene in mente l’infanzia, il raccoglimento: i miei presepi sono sempre piccoli, io amo le cose piccole, quelle grandi mi fanno terrore. E vedendola così minuta, sbattuta in un angolo della strada con l’unica compagnia di una sigaretta sempre accesa, mi domando se per lei la vita non è stata una cosa troppo grande, troppo difficile da affrontare.
Margherita, tu lo fai ancora il presepe? Certo, mi dice lei, parto da qui. E dalla borsa sdrucita tira fuori una ranocchia. Si chiama Tommasina, la metto vicino alla capanna. Ma non c’era nessuna ranocchia quando Gesù nacque, le dico. Allora, lei mi guarda e i suoi occhi di un azzurro sbiadito, come quello delle statuine stinte dal tempo, i suoi occhi iniziano a roteare: Anche se tu non vedi le cose, non significa che non ci sono. E ha ragione, una ranocchia ci dev’essere pur stata quando Gesù nasceva. Io nel presepe, dice Margherita gettando per terra la sigaretta spenta per accendersene subito un’altra, io nel presepe vorrei essere l’asinello. Non la rana? La giovane sdentata fa roteare gli occhi sbiaditi e ripete: L’asinello, perché ha la capacità di sopportare sapendo che viene usato, però, sa anche che ci sarà un al di là dove gli asinelli trotterelleranno accanto a Gesù.
Margherita, ma perché vuoi essere un asinello? Per solidarietà. Con un animale sfruttato? La solidarietà si dà ai perdenti. E tu sei perdente? La giovane sdentata distoglie lo sguardo dalla sigaretta e mi guarda e i suoi occhi di statuina stinta dal tempo roteano per la terza volta. Marghe, ripeto, tu sei una perdente? Certe volte penso di sì.
Di colpo in ingresso è calato il buio. Hai spento le luci di casa e per qualche istante tu e io non vediamo più nulla. Poi, sento un click e tutto viene illuminato dal tuo presepe. Ci sono tutti, mi dici, Giuseppe, Maria, bue, asinello, pastori, l’oste, la lavandaia, ci sono il mulino, il pescivendolo, la donna con l’anfora, il pastore che dorme, come te, mi dici, tu che ancora non vuoi svegliarti, che ancora sogni il presepe e non lo fai mai. Io penso al mio presepe, penso a Valerio, a Imen, a Destiny, a Florence, a Michele e Gina, a Margherita e a tutte le altre persone che incontro sulla strada o in un ostello della Provvidenza o in una casa di cura, tutte persone di cui io non conosco che istanti, attimi, frammenti e nulla più.
Le lucine del tuo presepe ora feriscono i miei occhi stanchi: per me tutte queste persone in carne e ossa che quando ti abbracciano ti stringono come fossi un premio che mai e poi mai avrebbero sognato di vincere, tutte loro per me sono come le statuine di un presepe che io tiro fuori per un breve periodo della mia vita per poi riporle negli scatoloni del tempo passato, e se nel frattempo si rompono non fa niente, ne comprerò un’altra, magari più bella.
Sì, mi chiedo: perché i loro figli, i loro cari, i loro amici non fanno niente per loro pur sapendoli in rovina? Ma perché non mi chiedo: perché io non faccio niente per loro? Non me lo chiedo perché non è carino. Non è carino trattare le persone come statuine di un presepe che tiri fuori dalle scatole solo quando è tempo e poi quando non hai più tempo, quando non hai più voglia, rimetti dentro, tutto: pastori, pecore, Giuseppe, Maria, pure Gesù io lo infilo dove mi fa più comodo, dove sta meglio con l’arredamento e ce lo faccio stare, buono, in silenzio, dormi bambino, mio piccino…
Che hai? mi dici riaccendendo le luci di casa. Non lo so, ti dico, Se penso al presepe sai cosa mi viene in mente? Mio padre. Mio padre che il 24 sera si metteva in ingresso come fai tu e incurante degli strepiti di mamma: Ma è mai possibile che ti riduci sempre all’ultimo! Papà tira fuori dalla scatola licheni, cortecce, una grande capanna, mille statuine e infine un angelo troppo grande rispetto a tutto il resto, capanna compresa. Lo sai, mi sono sempre chiesta: ma quell’angelo che ci fa nel nostro presepe? Non è troppo grande? Forse, fa quello che non riusciamo a fare noi, mi dici prendendomi per mano. Forse in quella sua sproporzione rispetto alla nostra miseria, l’angelo vede e provvede, anche se noi non lo sappiamo e anche se dopo un mese lo incartiamo con gli altri personaggi e lo riponiamo nelle scatole dicendogli: Ci vediamo tra un anno! Lui ci vede sempre, anche se noi non lo sappiamo, anche se noi sogniamo e non agiamo, anche se noi falliamo nell’essere meglio di quello che speriamo, ma Lui vede e provvede, e sa che qualsiasi cosa facciamo, anche quel poco e vigliacco agire che abbiamo, quello è il nostro possibile, per il resto ci pensa Lui.
di Violante Sergi