Canti dalle periferie
Quell’Anno Santo del 1950
Non potrò mai dimenticare l’Anno Santo del 1950. Avevo 10 anni e frequentavo la quinta elementare. Proprio in vista del Giubileo i miei genitori avevano voluto che io e la mia carissima sorella Luisa ricevessimo la prima Comunione con un anno d’anticipo. Ricordo come fosse oggi l’emozione che provai quel giorno nella piccola cappella della nostra scuola in via Como e la serietà con la quale presi l’impegno a vivere da vero cristiano.
Così, il 24 dicembre 1949 andai con mio padre nella basilica di San Pietro per assistere al rito dell’apertura della Porta Santa. A quell’epoca non c’erano le dirette tv. Vidi Papa Pacelli arrivare maestosamente sulla sedia gestatoria e benedire una grande folla di fedeli. Che emozione, ma anche che freddo!
Quella immagine mi riporta ad un’altra, altrettanto emozionante e commovente, di cui ero stato testimone qualche anno prima. Quella del Papa che benediceva la folla dopo i bombardamenti del quartiere San Lorenzo che avevano provocato centinaia di morti, tra cui le donne che vendevano i fiori all’ingresso del vicino cimitero del Verano.
All’epoca avevo 4 anni e il mio papà era appena tornato dalla prigionia in Austria. L’immagine del Papa che benediceva i vivi e i morti non l’ho mai dimenticata come mai potrò dimenticare i grappoli di bombe sganciate dagli aerei.
È passato tanto tempo da allora, ma nulla o poco si fa nel mondo per evitare che questi massacri di persone innocenti continuino. Oggi, come allora, solo la voce del Papa si leva ogni giorno per invocare la pace.
Come cristiani, in questo nuovo Anno Santo speriamo che il Signore illumini le menti di coloro che hanno nelle mani il destino del mondo. Preghiamo tutti insieme, ricordando che nessuno potrà mai toglierci la bellezza divina dell’alba di un nuovo giorno che darà calore e forza alla nostra speranza.
Cosa accadrà ai poveri?
Mi si dice che a Torino, quando ci furono le Olimpiadi invernali, tutta la città fu ripulita anche dei senzatetto. Non so — ma, forse, è mia ignoranza — dove siano state sistemate quelle persone. Di sicuro, però, accadde che, finita la manifestazione sportiva, quelle stesse persone che erano state allontanate tornarono nei soliti posti.
Ora c’è il Giubileo. Si celebra ogni 25 anni e Roma indossa “il vestito buono” per accogliere milioni di pellegrini da tutto il mondo. Cosa accadrà? La stessa cosa che è successa a Torino e, più di recente, a Parigi? Staremo a vedere. Sta di fatto che il problema di dare un tetto a chi un tetto non ce l’ha non si risolve magicamente e solamente in occasione di grandi eventi. Servono soluzioni durature.
Questo vale non solo per chi è vittima della povertà abitativa. Sono tante, sempre di più, le persone e le famiglie che a stento arrivano a fine mese. Quelle che si nutrono male e neanche riescono a curarsi. Che si fa per tutti loro? Insomma, la città pensa ad arricchirsi, aprendo nuovi alberghi e ristoranti, e i poveri si impoveriscono sempre di più. Una drammatica realtà che vede solo chi vuol vedere.
Essere pellegrini di speranza
Pregare è mettersi in cammino, è aprire il cuore alla speranza e all’incontro con gli altri, è volgere lo sguardo ai poveri, è superare l’indifferenza.
Lasciamoci guidare dal sorriso di quel Bambino nato nella mangiatoia, povero e senza una casa, protetto tra le braccia di Maria, sua madre. Forse avrà pianto quando sarà nato e avrà cercato un po’ di calore per scaldarsi.
Basta un semplice sorriso per accogliere Gesù nel nostro cuore. Dio ha scelto di farsi uomo tra gli uomini, e di essere povero, pur essendo ricco di amore. Dobbiamo far sì che il nostro cuore sia aperto e possa trasmettere agli altri calore e amore, cercando di arrivare a conoscere Lui, il Dio con noi.
Gesù ascolta le nostre preghiere e vuole che nel mondo regni la vera pace. Perciò dico: abbiamo bisogno di te, Signore, e del tuo amore. Fa’ che possiamo essere pronti ad accoglierti con tutto l’amore di cui siamo capaci e che la nostra vita sia illuminata dalla tua nascita. Fa’ che sappiamo riconoscerti come i pastori a Betlemme.
Ti pregheremo nell’Eucaristia, perché tu, che sei il Salvatore, nasci per noi. Alleluia, alleluia.
Il mare e il Natale “anticipato”
Sono tarantino di origine e la mia città, oltre ad essere conosciuta per le sue vicissitudini ambientali e per le sue vestigia, ha un primato: in Italia è la prima ad avviare i riti di preparazione al Natale. Accade esattamente il 22 novembre, giorno dedicato a Santa Cecilia. Il motivo? Sembra strano, ma è colpa del mare di cui è intriso il suo tessuto sociale, religioso, nonché fisico. Non a caso Taranto è detta “la città dei due mari”.
Sin da tempi relativamente remoti, anticipare e allungare il periodo natalizio dava infatti la possibilità agli uomini di mare di poter vivere un pizzico di Natale in famiglia.
Almeno fino ai tempi delle nonne, la corsa sfrenata ai regali non era per niente calcolata e le spese erano concentrate tutte sull’obiettivo di vivere in serenità almeno un giorno con tutta la famiglia unita. Si preparavano le pettole, un pane fritto e dolce, che poi venivano offerte a tutti, dando anche ai meno abbienti la possibilità di partecipare alla festa.
Tutti, a mio parere, dovremmo far tesoro di queste semplici e all’apparenza obsolete tradizioni: avere pazienza, non obbligare e non essere obbligati a correre per spendere. È vero, la data è importante, bisogna rispettarla, ma perché non pensare e agire come se fosse Natale tutti i giorni, senza pensare ai regali e alle vacanze? Del resto si nasce una sola volta, ma siamo nati per rinascere ogni giorno. La bontà e la bellezza dell’essere umanamente umani si possono esprimere sempre nei confronti di se stessi, di chi amiamo, del prossimo e del luogo in cui viviamo, là dove possiamo comprenderci e perdonarci: la famiglia, il paese, il mondo intero. Allora, buon Natale! Qualunque giorno sia.
Un Giubileo per la ripartenza
Gli antichi Romani dicevano: «Spes ultima Dea». I romani moderni — e non solo — dicono: «la speranza è l’ultima a morire». Il senso è lo stesso. Ma perché la speranza dovrebbe morire?
Pochi giorni or sono, commentando alcuni episodi di violenza, un sacerdote americano ha detto: «Non bisogna mai perdere la speranza, perché nel mondo c’è più bontà che cattiveria».
Allora sarebbe meglio intendere diversamente l’aggettivo “ultima”, pensando alla speranza come a un baluardo: l’ultima a rimanere, a resistere.
In effetti, riprendendo un paragone già fatto, se la preghiera è la “benzina” che fa marciare la nostra “macchina” esistenziale, la speranza è l’“olio lubrificante”. È la speranza che ci permette di individuare i nostri obiettivi, perseguirli, dandocene la forza. Senza speranza vien meno la fiducia. Allora sì che è la fine.
La speranza può suonare come un concetto ingenuo, velleitario, un pio desiderio. Forse per questo la si sottovaluta. Guai a fare propria l’invettiva-tormentone di Bartali: «L’ è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!». Pensare che tutto è sbagliato è un modo di sbatter la porta in faccia alla speranza. Il risultato è che non si fa niente.
Certo, chi è povero ha un motivo in più per perdere la speranza, eppure, paradossalmente, è quasi un dovere verso sé stessi non perderla se si vuol ripartire. E questa è la grande esigenza: proclamare forte e chiaro che la ripartenza è possibile!
È così che quella «bambina da nulla» — secondo il poeta Charles Péguy, citato da Papa Francesco nel discorso pronunciato all’assemblea diocesana per i cinquant’anni dal convegno sui mali di Roma — crescerà e attraverserà il mondo.
Proclamare questo chiama in causa tutti: poveri e ricchi. Facciamo allora che il Giubileo della Speranza sia anche il Giubileo della ripartenza.
La preghiera per andare avanti
Il mio caro nonno Ciro, da cui ho ereditato il nome, diceva sempre: «A tutto c’è rimedio, tranne che alla morte. Per questa non c’è rimedio!».
Queste parole non le ho mai dimenticate, anche quando stavo attraversando l’inferno, anche quando non riuscivo a vedere un po’ di luce, perché il dolore era troppo forte. Poi, un bel giorno, quelle parole sono diventate fatti.
Per me la speranza produce cambiamento. La speranza mi ha reso libero anche quando ero prigioniero della paura.
Parlare di speranza oggi è difficile. La speranza spesso viene confusa con il non fare nulla perché le cose accadono da sole. C’è stato un periodo della mia vita in cui sono stato fermo, immobile nel letto, perché la paura e la depressione avevano completamente preso possesso di me.
Oggi, spero che la gente, questa che noi chiamiamo ancora umanità, riesca a fermarsi, a riflettere e a dirsi: «No… non faccio più il gioco del “cornutaccio”, ma mi affido unicamente a Dio».
Prima speravo per me, ora invece spero per quelle persone che sono come sono stato io in passato.
Certo non è facile parlare di speranza quando si è immersi nella disperazione… per cui ecco che qui deve intervenire immediatamente la preghiera.
Ultimamente sono tornato a frequentare i gruppi di Alcolisti Anonimi. Loro hanno una preghiera molto potente, che dice: «Concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso e la saggezza di conoscerne la differenza».
Per più di dieci anni l’ho avuta impressa nella mente e soprattutto nel cuore, ma andava e veniva per il gioco delle forze oscure. Oggi, invece, insieme a tante altre preghiere, è il mio risveglio quotidiano. E così si va avanti!
Avanti e non indietro!
La dignità non è in svendita
C’è una parola nella nostra vita che pare quasi magica. È la parola speranza. Se ci pensiamo, la utilizziamo sempre un po’ per la nostra fragilità e un po’ perché la vita non offre certezze. Per ogni persona che necessita di lavoro, casa, salute, per chi ha a che fare con la pubblica amministrazione è sempre aperto il capitolo della speranza.
In questo contesto, l’ambito della detenzione si può dire che viva di speranza: la speranza di imbattersi in una giustizia giusta ed in una detenzione (quando ne ricorrano le condizioni) corretta. Non è un caso che proprio in questa nostra società di valori frammentati, la Chiesa, attraverso il Giubileo, sottolinei con forza la necessità di rendere la speranza ricca di contenuti.
Nel mondo, le persone incarcerate sono più di nove milioni. La testimonianza vivente e diretta di tanti missionari ci racconta di carceri dove le persone sono rinchiuse in gabbie, dove non sempre c’è da mangiare e l’igiene non esiste. In Italia, il numero sempre più elevato di suicidi dentro le carceri evidenzia un malessere esplosivo. Si soffre per il sovraffollamento: circa quindicimila persone in più rispetto alla capienza ufficiale. Alle attuali circa sessantaduemila persone detenute, occorre poi aggiungere altre circa centomila condannate ma non ristrette (i liberi-sospesi) e quelle seguite dall’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale esterna). Insomma, la giustizia italiana ha il fiato corto, il personale è insufficiente e tante persone sono lasciate nelle carceri.
Ecco allora che, ancora una volta, è la Chiesa ad intervenire per sollecitare una giustizia che sia equa e giusta. Papa Francesco, come sempre, è molto diretto e nella Bolla di indizione del Giubileo ha scritto: «Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi».
Bastano queste parole a scuotere le coscienze e a far muovere il legislatore perché ci sia umanità e buon senso. Così come ha ricordato il presidente Mattarella che ha parlato di carceri in «situazioni angosciose e indecorose per un paese civile», aggiungendo che «le carceri non possono essere il luogo ove si perde ogni speranza».
Nessuno può pensare di non dover “pagare” per gli errori commessi, ma tutti si attendono di essere trattati come persone e non come numeri. La speranza, in fondo, è proprio questo: vivere nella dignità.
La scelta del Papa di aprire una Porta Santa a Rebibbia è anche una sollecitazione e uno sprone ai tanti — legislatori, magistrati di sorveglianza, operatori — e a tutta la società civile perché la dignità non è materia di svendita.
Alessandro Milza
Elio Alfonsi
Lia Salvati
Arcangelo D’Alessandro
Fabrizio Salvati
Ciro Salvucci
s.c