Delusione, dolore, disperazione. E come potrebbe essere altrimenti? A Gaza pensare ad un Natale diverso è umanamente quasi impossibile. Non riesce a farlo neanche padre Gabriel Romanelli che tutti giorni ha sotto gli occhi la tragedia della guerra che, da quel maledetto 7 ottobre del 2023 con la brutalità degli attacchi di Hamas e la furiosa risposta di Israele, sta insanguinando la città palestinese e mettendo in ginocchio l’intera Terra Santa. Case colpite e distrutte, strade divelte e polverizzate, interi quartieri cancellati per sempre dalla furia delle bombe sono il presepe che il parroco della Sacra Famiglia proprio non vorrebbe. Nella sua mente, e nel suo cuore, non trovano posto altro che quelle migliaia di morti innocenti sacrificati sull’altare dell’odio, molti dei quali ancora sepolti e dimenticati sotto il peso delle macerie. «Dopo più di un anno, ogni giorno sentiamo il tragico suono delle bombe. E poi c’è il dolore degli ostaggi e delle loro famiglie, degli ammalati che non possono essere curati perché qui le medicine non ci sono più, degli oltre 100.000 feriti che lottano tra la vita e la morte perché gli ospedali sono stati tutti rasi al suolo».
Padre Romanelli, in un colloquio con L’Osservatore di Strada, non esita a definire la sua gente di Gaza delusa, senza più speranza umana: «Ma quella in Dio non manca e siamo sicuri che non deluderà. Paradossalmente, il Natale continua a portare gioia anche in questa terra martoriata. Da qui si sente l’eco degli angeli a Betlemme che gridano: “Gloria a Dio nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà”».
In queste settimane di pianti e lutti, il parroco dell’unica parrocchia latina di Gaza ha fatto riaffiorare nei ricordi della sua mente le parole che San Giovanni Paolo ii pronunciò durante un suo viaggio proprio a Betlemme: «Disse questa frase che mi è rimasta impressa, come stampata con il fuoco: “la culla di Gesù è sempre all’ombra della croce”. E oggi in questa parte della Palestina la culla di Gesù si trova esattamente all’ombra della croce. Ma non dobbiamo dimenticarci che il Gesù della culla è lo stesso che ha attraversato Gaza quando il re Erode cercava di ucciderlo e lo stesso che sulla croce è morto e risorto per tutti noi».
Esteriormente il Natale a Gaza non sarà come nel resto del mondo. «Con più di 43.000 morti, tra i quali migliaia di bambini, non si può pensare che si possa festeggiare allo stesso modo, la gente non capirebbe. Ma alcuni simboli essenziali per noi cristiani non mancheranno: l’albero, il presepe. Tutti fatti in modo molto semplice, sobrio. I veri festeggiamenti però sono spirituali: la liturgia celebrata in modo solenne con tutta la partecipazione del popolo».
Alla mancanza dello sfarzo esteriore corrisponde la ricchezza interiore alimentata da una preparazione lungo tutto il periodo dell’Avvento, fatto non scontato in una parrocchia che vive in un periodo di guerra terribile. Ci sono i ritiri per ogni singolo gruppo e poi le confessioni e le catechesi minuziose ed attente. Ma qualche dolce per i bambini, il giorno di Natale, non mancherà di certo. «Non solo per quelli della nostra comunità, che sono ospitati insieme ad altri 500 cristiani all’interno della struttura religiosa, ma anche per quelli musulmani del quartiere che sanno che a Natale nasce Gesù». Un gesto che dimostra come sia radicato e forte il rapporto tra i cristiani e l’intera popolazione a tal punto che padre Romanelli rivela anche che già «in questi giorni, grazie all’aiuto del Patriarcato Latino di Gerusalemme e di altri sostenitori, stiamo consegnando alle famiglie non solo cristiane numerosi pacchi viveri perché hanno davvero bisogno di tutto. A novembre, di nuclei familiari, ne abbiamo sostenuti oltre 7.000».
Ecco qui, la speranza del Natale di Gaza, nonostante bombe e devastazione. «Noi siamo strumenti dell’amore di Gesù che arriva a tutti. E la Chiesa continua a portare il messaggio della fede che non esclude nessuno e a chiedere la pace e la riconciliazione, senza stancarsi mai».
di Federico Piana