· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

In Islanda davanti alla porta Valþjófsstaður

Passaggio di generazioni

 Passaggio  di generazioni  DCM-011
07 dicembre 2024

Settembre in Islanda è il mese più bello, lo dicono tutte, tutti. A settembre, se alzi gli occhi al cielo è probabile che tu veda l’aurora boreale: non servono app, basta non ci siano troppe luci accese, basta che la volpe abbia voglia di spazzare la neve per te, una volpe che usa la coda come una scopa. È la volpe a lasciare nel cielo strane scie rosse, verdi, viola, scie luminose esaltate dalle fotografie più sofisticate che danno l’impressione di luci stroboscopiche, da discoteca, quando sei vicino a un ghiacciaio o in mezzo al nulla. È la volpe, così vogliono certe storie raccontate ai bambini, le avrei raccontate anche io a mia figlia se una sera almeno fosse rimasta sveglia, se una sera almeno avessi potuto portarmela in braccio in giro per i quartieri più bui di Reykjavík a cercare l’angolo giusto da cui lasciarla apparire: la volpe, oppure soltanto la sua coda.

Ma, nel settembre che abbiamo trascorso insieme in Islanda per via di una mia residenza di scrittura, la notte mia figlia dormiva. E questo è un bene, lo so, perché se i figli dormono le madri riposano, e c’è qualche probabilità in più che non cadano. Ma la domenica mattina invece eravamo sveglie, sveglissime, io e la bambina, e ce ne andavamo in giro per musei come quando io ero piccola e il museo della mia città la domenica mattina era aperto ed eccezionalmente gratuito: ci andavo con mia madre ed era una festa, era come andare al cinema.

Così, una domenica mattina a Reykjavík, poco prima di lasciare l’Islanda: io, lei e mia madre. Volevamo vedere una porta dal nome complicato, come tutti i nomi islandesi, una porta medievale in legno di pino, in stile romanico, risalente al 1200.

Era stato il giornale a darmi la suggestione: si stava preparando un numero dedicato alle porte e io avevo scelto lei, la porta di Valþjófsstaður, la più famosa d’Islanda, perché era lì a pochi chilometri da quella che per un mese era stata la mia casa, e anche per via della storia che raffigurava, un cavaliere uccide un drago per liberare un leone, il leone va a morire sulla tomba del cavaliere. Una tradizionale, epica, storia di eroi dentro due cerchi, uno dopo l’altro. Ma erano davvero solo due? Una delle ipotesi sulla porta oggi conservata al museo è che le scene fossero tre, che ci fosse un terzo cerchio oggi perduto.

Seguo mia figlia tra le stanze del museo. Corre con in mano la matita mentre io tengo il quaderno che ci hanno dato entrambi all’ingresso, da queste parti sono attenti ai bambini e c’è sempre qualcosa per intrattenerli, adesso dovrebbe segnare con una croce tutto ciò che vede: elmetti, otri, stendardi… Non ci sono porte sul quaderno, eppure noi siamo venute qui per vedere proprio lei, la porta. Siamo venute in tre, io, mia figlia e mia madre che però non vedo più, l’ho persa, l’abbiamo persa, ma del resto non è sempre così con mia madre? Ti distrai un attimo e non la vedi più, si sta ancora preparando mentre ti ha detto di cominciare ad andare, oppure si è attardata con un’amica per strada, o sta comprando qualcosa di futile e bellissimo. Arrivo, arrivo – la voce di mia madre. Poi arriva sempre, arriva davvero, anche questa volta. «Hai visto in quella stanzetta? C’è una statua incredibile…» Mia madre vive tutto con diverse note di troppo, non saprà mai centellinare le emozioni e questo è il suo bello, anche se quando ero più giovane pensavo fosse il suo limite. Quanto mi faceva arrabbiare quel suo eccedere, lo rifiutavo a prescindere, lo rifiutavo perché pensavo fosse l’unico modo possibile per differenziarmi, e perché pensavo, forse non del tutto a torto, si potesse essere giovani solo così: essendo altro da chi ti ha generata.

«Hai visto che statua?» seguo mia madre, mia figlia segue me. Una dopo l’altra, tre matrioske di fila, per arrivare dove ci ha portato la più grande: davanti a un trittico di legno del 1500 che raffigura Maria, Gesù Bambino e sant’Anna. La nonna, la madre, il figlio. «Sono rare le immagini di tutti e tre insieme», sta dicendo mia madre con gli occhi incantati. Madre, figlia e nipote da un lato e dall’altro del vetro: uno specchio. Se solo ci fosse una porta nella teca, potremmo scambiarci di posto, noi di là, con un libro, una corona, un manto. Loro di qua, una penna e un quaderno, una borsa con dell’acqua, il telefonino.

Penso a una foto, tra le più care che ho: io, mia mamma, mia nonna, una in braccio all’altra. Tre matrioske una dentro l’altra, come siamo state l’una nel ventre dell’altra, prima di nascere. È una polaroid dei primi anni Ottanta, io avrò avuto quattro o cinque anni. Sotto, mia madre ha scritto a stampatello: le tre generazioni . Siamo state una la porta dell’altra, da ciascuna di noi è nata un’altra donna che ne ha generato un’altra, e adesso so che quel filo matrilineare è luccicante e prezioso, adesso so che molto di quello che ho viene da lì. Chiudo gli occhi, aggiungo mia figlia alla foto (quanto mi sarebbe piaciuto che mia nonna la conoscesse, quanto avrei voluto che non fosse morta prima della sua nascita). Sì, così la foto è completa, eppure è così raro che le generazioni siano quattro, mancano sempre la radice o il frutto, ma il filo è quello ed è così che le donne si sono riconosciute nelle famiglie, una dopo l’altra, e si sono guardate le spalle a vicenda.

Ora non diciamo più niente. La bambina sta correndo nell’altra stanza disturbando i molti visitatori silenziosi e attenti, che però non protestano, non si lamentano: siamo nel Nord Europa. La bambina corre e ora siamo noi che le andiamo dietro, perché dobbiamo badare a lei, certo, ma anche perché ha ragione, ci indica la strada: è di là che dobbiamo tornare, a vedere la porta per la quale siamo qui. Quella che il giornale mi ha mandato a vedere e raccontare. È sempre il frutto che protegge l’albero, mai viceversa: adesso mi ricordo. Quanto alle porte, non sono mai quelle che ti aspetti, e adesso so pure questo.

di Nadia Terranova
Scrittrice, autrice di numerosi romanzi, ha scritto anche diversi libri per bambini e ragazzi, ed è vincitrice del Premio Strega Ragazze e Ragazzi e del Premio Andersen. Il suo ultimo libro è Etna. La lingua del fuoco, ed. Humboldt.


L’unica ancora esistente,  per secoli porta di una chiesa 


La porta di Valþjófsstaður prende il nome da una antica tenuta  che si trova a Fljótsdalur, comune di 524 abitanti. Scolpita in legno nel xii secolo, fu utilizzata inizialmente in un maniero, poi come porta di una chiesa a doghe dedicata a Maria Santissima.  Misura 206,5 cm ed è composta da tre assi a coda di rondine. Sul fronte due spazi rotondi e intagliati, tra di essi un anello in ferro argentato scanalato.

 Il tondo superiore raffigura un noto racconto medievale, Le Chevalier au Lion, in tre episodi. In basso vediamo un cavaliere con il suo falco da caccia. Uccide un drago che ha catturato un leone, e poi il leone viene raffigurato con gratitudine mentre segue il cavaliere. Alla fine, il leone giace presso la tomba del cavaliere, piangendolo. Sulla tomba sono incise delle rune: «Ecco qui sepolto il potente re che uccise questo drago». Nel tondo inferiore ci sono quattro draghi intrecciati. 

Molte chiese islandesi medievali erano decorate con intagli in legno, ma la porta Valþjófsstaður è l'unica scolpita ancora esistente. Venduta a Copenaghen nel 1852, tornò in Islanda nel 1930.   La chiesa attuale (nella foto), consacrata nel 1966,  è in cemento e può ospitare 95 persone. Ne ospita una copia.