· Città del Vaticano ·

Un volume per narrare la vita dentro e fuori le sbarre

L’esperienza
di non essere un numero

 L’esperienza  di non essere un numero   QUO-271
29 novembre 2024

Il progetto del volume I volti della povertà in carcere nasce “plurimo”; è stato sostenuto, tra gli altri, da «L’Osservatore Romano», «L’Osservatore di Strada», la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, Giacinto Siciliano, provveditore della Regione Lazio, già direttore del carcere di San Vittore, Giuliano Crepaldi, della Società San Vincenzo de Paoli di Roma. L’incontro del 28 novembre scorso, arricchito da una mostra fotografica allestita nel Chiostro di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, è stato aperto da un videomessaggio di saluto di Juan Manuel Buergo Gómez, presidente generale, e Antonio Gianfico, direttore generale internazionale della Società San Vincenzo de’ Paoli, e da Giovanni Russo, a capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sono intervenuti — oltre agli autori del libro, Rossana Ruggiero e Matteo Pernacelsi — tra gli altri, Roberto Turrini Vita, garante nazionale dei detenuti, Francesco Bonini, rettore dell’università Lumsa, don Dario Acquaroli, direttore della Comunità don Lorenzo Milani di Sorisole (Bergamo), Roberto Pagani (Forum Terzo Settore) e il provveditore Siciliano.

I volti sono quelli di alcuni detenuti e detenute del carcere di San Vittore di Milano, illuminati dalla penna di Rossana Ruggiero, che ha scritto le storie, e dalla luce di Matteo Pernacelsi, che li ha fotografati in un bianco e nero di forte impatto emotivo; I volti della povertà in carcere (Bologna, Edb, novembre 2024, pagine 144, euro 39) è il volume presentato il 28 novembre scorso presso la Sala degli Atti Parlamentari nella Biblioteca del Senato Giovanni Spadolini, a Roma. «Questo libro è una bella scossa, che turba e inquieta facendoci tuffare dentro una realtà che spesso togliamo dalla nostra visuale, che spesso vogliamo rimuovere», ha detto Andrea Monda, direttore de «L’Osservatore Romano» e moderatore dell’incontro, aperto con un messaggio di saluto di Papa Francesco e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

«Il carcere è stata un’esperienza dolorosa», ha detto Rossana Ruggiero, membro del Consiglio Centrale di Roma della Società San Vincenzo de Paoli e giurista e bioeticista nell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, di Roma. «Superarne la soglia e vivere, attraverso i detenuti, l’esperienza del limite della libertà e la percezione del corpo incarcerato, non mi ha trovato pronta. Poi, dopo un anno di lavoro e di incontri, ti accorgi che hai fatto quello che hai potuto, che il loro bene era cucire i pezzi delle loro storie, storie di vita che non credevano più di avere né di ricordare».

Per Matteo Pernaselci, fotografo, «entrare in un carcere è stata un’esperienza forte, soprattutto quando si è molto giovani. Ho scattato le fotografie di questo libro quando avevo 22 anni ed era la prima esperienza di reportage in un luogo così carico di storie. Siamo andati alla radice, cercando di comprendere il senso di quanto era accaduto nella vita delle persone che abbiamo incontrato. Guardare qualcuno negli occhi e porgergli la mano potrebbe cambiare la sua vita per sempre».

Come scrive il cardinale Matteo Maria Zuppi nella prefazione del libro, «non sei un numero, non sei una matricola, non sei il reato che hai commesso, sei una persona». E dunque conosciamole alcune di queste persone. Berrich, tunisina, ha un ricco curriculum professionale e umano: infermiera, cameriera, mediatrice culturale, un matrimonio combinato, un’unione civile e una convivenza. Ha due bambini, di dieci e quattro anni, ed è arrivata in Italia per scappare dal primo matrimonio. La sua ultima storia d’amore è stata fatale. Un reato consumato per aver scoperto il tradimento del suo compagno con la sua migliore amica, ingaggiata come babysitter del figlio. Viene reclusa, prima, in una casa circondariale, dove vive una brutta esperienza, poi, al carcere di San Vittore, che considera una “salvezza, un paradiso”. «Sono rinata», dice. «Ora ho una grande pace interiore, mi sento libera, mi amo e mi rende felice aiutare chi ha bisogno».

La povertà ha molte facce: economica, spirituale, educativa, di relazione. Colpisce la storia di Antonietta, pugliese, quattro figli, l’ultimo dei quali, Pasquale, studia per diventare frate a Reggio Calabria. Un marito violento e una vita di duro lavoro. Riferisce di trovarsi in carcere per aver acquistato un cellulare usato che è risultato essere rubato. Antonietta non ha vestiti, non ha prodotti per lavarsi, non ha denaro. Ha solo il crocifisso donatole da Pasquale. «Lo porto sempre al collo. Qui dentro mi protegge».

Il “fuori” fa paura. «A combattere si inizia quando si è fuori di qua e la forza sta nel coraggio di allontanare qualunque cosa ti riporti alla tua vecchia vita», dice Roberto, 23 anni, che, in carcere, ha scoperto la musica trap e scrive canzoni. «Ho paura di uscire e di ricadere nella vita di prima. C’è il professore di musica, contatti con associazioni, il Sert e diciamo che gli strumenti li ho... però ho paura!». Una paura che può soffocare ogni speranza. «Dura da dirsi, ma sentirsi isolati fuori dal carcere, senza famiglia, e senza lavoro, inevitabilmente ti peggiora e crea tanta solitudine. Per cui, sì, meglio il carcere», afferma Massimo, 62 anni.

Secondo don Dario Acquaroli, c’è una parola fondamentale che si trova nella Bibbia e nella nostra Costituzione, la parola è “responsabilità”. «Magari non c’è più nessuna speranza perché lui ha deciso di non sperare più, però c’è ancora una speranza per me, c’è ancora una speranza di rimanere accanto a quella persona; e quel rimanere accanto è quel gesto che permette di non essere soli neanche nell’ultimo momento della vita».

di Marina Piccone