· Città del Vaticano ·

Viaggio a Betlemme, alle porte dell’Avvento

In attesa del Natale
nonostante la guerra

 In attesa del Natale  QUO-271
29 novembre 2024

Sabato 30 novembre il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, darà l’avvio al periodo natalizio con il solenne ingresso a Betlemme, attraversando la grande porta d’acciaio lungo il muro di divisione, accanto alla Tomba di Rachele, che viene aperta solo per queste grandi occasioni. Il 24 dicembre farà il suo ingresso il patriarca di Gerusalemme dei Latini, cardinale Pierbattista Pizzaballa, e poi il 5 gennaio, per il Natale ortodosso, sarà la volta del patriarca greco-ortosso Teofilo iii . Almeno le liturgie saranno rispettate. Ma Betlemme vivrà il suo secondo Natale di solitudine, povertà e tristezza.

Tra le città dei territori palestinesi occupati, Betlemme ha sempre mantenuto una sua specificità. Può sembrare paradossale rispetto al conflitto permanente che l’affligge, ma ha una sua leggerezza, un suo spirito di resistenza nella lietezza. Diversa dalla inevitabile cupezza di Jenin, di Nablus, di Tulkarem. Forse dipende ancora dal lascito di quell’evento che fu il più gioioso della storia dell’umanità, o forse dipende dalla presenza costante e colorata dei pellegrini che la visitano durante tutto l’anno, o forse dipende dalla presenza, ancora oggi, di una nutrita comunità cristiana, impregnata di quella gioia propria dei frati francescani che da otto secoli li assistono. Fatto è che a Betlemme è facile respirare sempre quell’aria serena e gioiosa che è propria delle feste natalizie: perché a Betlemme ogni giorno è Natale. Quell’aria oggi è scomparsa.

Dal 7 ottobre dello scorso anno, Betlemme è precipitata in un’atmosfera cupa e invariabilmente triste. La basilica della Natività è quasi ad ogni ora deserta. Di pellegrini neanche l’ombra. Il vicino albergo per pellegrini Casa Nova è ormai serrato da dodici mesi. I negozi degli artigiani che realizzano oggetti religiosi lungo la Milk Grotto street, che costeggia il lato sud della basilica, sono quasi tutti chiusi. E non diverso è per quelli che sia affacciano lungo la Manger street, il lungo corso che conduce verso Beit Jala. Anziane donne vestite di nero vi vendono quella poca frutta e verdura che riescono a coltivare nei loro orti domestici. Le coltivazioni più grandi si trovano fuori del muro che separa Betlemme da Israele e non possono essere lavorate. È difficile entrare a Betlemme. Quegli otto chilometri che la separano da Gerusalemme ora richiedono più di un’ora di viaggio. Se si è stranieri, perché se si è palestinesi (con permesso di uscita) ne richiedono assai di più per i controlli ai check point. Il bus 234 arriva fino al check point trecento, da lì si deve prendere un taxi che, con dieci dollari, porta al centro della cittadina. Ma gli orari di apertura del check-point ora sono ristretti. Per quella via si rischia di dover rimanere per la notte a Betlemme. Gli israeliani dicono che hanno i soldati impegnati al fronte e non ne hanno a sufficienza per tenere aperto il varco. I palestinesi sostengono che sia invece un’ulteriore angheria messa in campo nei loro confronti.

Prendiamo allora il 231, il bus che finisce a Beit Jala: da lì me la farò a piedi. Prima del 7 ottobre, il bus 231 seguiva un percorso che prevedeva controlli dei soldati israeliani solo sulla via del ritorno; ora i controlli sono su entrambe le vie e l’itinerario, deviando dalla Hebron road, è molto più lungo, e, attraversando le campagne della Giudea, il capolinea è esattamente di fronte all’ istituto Effetà, il collegio voluto da Paolo vi per bambini audiolesi, dopo la sua visita in Terra Santa del 1964. Sono tanti i bambini sordi da queste parti, l’origine è genetica: deriva dalla persistente diffusione di matrimoni tra consanguinei. L’istituto è gestito dalle suore dorotee. Cogliamo l’occasione per salutarle. «È un momento molto difficile anche per noi — ci dicono — tanti dei nostri bambini non riescono a pagare la piccola retta che chiediamo, perché i genitori hanno perso il lavoro a causa della guerra. E noi non abbiamo altre entrate, oltre al contributo di qualche generoso benefattore estero». Ma i piccoli come vivono questo periodo? «Molto male. Alcuni di loro si sono visti portare via un genitore, uno zio, o un parente durante le irruzioni nelle loro case dei soldati israeliani. Arrivano di notte, entrano coi cani, magari solo per cercare volantini, i bambini audiolesi sono più sensibili della media e rimangono impressionati. Alcuni di loro hanno smesso di venire, perché il nostro istituto assiste una buona parte della Cisgiordania occupata, e ora con i controlli intensificati si formano lunghe file ai check -point, impiegherebbero anche tre ore per raggiungere l’istituto. Sei ore di macchina per cinque ore di permanenza nell’istituto sono insostenibili».

Lasciamo Effetà per proseguire a piedi verso Betlemme, lungo il corso che alla mattina è un grande mercato e che la collega a Beit Jala. I negozi sono quasi tutti vuoti, mancano le risorse per il mangiare, figurarsi per i vestiti.

La Casa del Fanciullo è un istituto della Custodia di Terra Santa che si occupa di ragazzi con difficoltà ed è diretto da fra Sandro Tomašević, che nella Custodia è anche uno dei “discreti”. «Ospitiamo 30 ragazzi al momento, 12 dei quali sono anche convittori». Anche per loro c’è una grande difficoltà nel pagamento delle piccole rette richieste. «Molti genitori non lavorano da più di un anno. Gran parte della popolazione di Betlemme si sostiene grazie a pellegrini e turisti. Gli artigiani del legno d’ulivo, i creatori di souvenir, camerieri, receptionist di alberghi. E molti lavoravano nello stesso campo a Gerusalemme, anch’essa oggi senza pellegrini». A questo si aggiunge la difficoltà di passare il muro. I permessi di lavoro sono sospesi, tranne per quelli che lavorano nelle scuole e nella sanità. Ci dice un insegnante che lavora a Gerusalemme e vive in un villaggio tra Betlemme ed Hebron: «Per essere a scuola alle 8 esco di casa alle 4,30 del mattino». Il check-point trecento, che è la porta principale d’accesso a Gerusalemme da Betlemme è aperto solo al mattino per chi lo attraversa a piedi. Anche il check-point che collega Betlemme, non con Israele, ma con Gerico e la Cisgiordania viene spesso chiuso dai soldati israeliani, per proteggere il passaggio dei settlers. Non è raro che le macchine con targa palestinese, provenienti da Betlemme, vengano raggiunte dalle sassaiole dei coloni. Sono ormai ben 16 gli insediamenti ebraici che circondano Betlemme. «Tutta la zona è in una situazione terribile», dice padre Ibrahim Faltas, vicario custodiale, che a Betlemme ha vissuto molti anni ed è considerato un po’ il leader della comunità cristiana. «Cerchiamo di portare un po’ di sollievo, aiutando le famiglie che hanno perso ogni fonte di reddito, provvedendo ai farmaci che sono sempre più difficili da reperire. E continuiamo a pagare lo stipendio a tutti i nostri lavoratori, anche se non possono lavorare da ormai un anno». Non è così per gli altri lavoratori del turismo che non dipendono dalla Custodia. «Sono più di dodicimila i lavoratori palestinesi del solo turismo che hanno perso il lavoro — ci dice Hani al Hayek, che è ministro dei beni culturali e del turismo del governo palestinese, ma anche sindaco di Beit Sahour — ma noi non siamo in grado di fornire loro alcuna integrazione ai mancati redditi, a causa del taglio dei trasferimenti delle tasse all’Autorità Palestinese, disposto dal governo israeliano».

Dall’altro lato della piazza della Mangiatoia, incontriamo lo sheikh Raed Abib Muhammad, che è l’imam della moschea che si affaccia di fronte alla basilica della Natività. «La festa cristiana del Natale è in realtà la festa di tutta Betlemme, indifferentemente dal credo religioso. In realtà noi collaboriamo sempre con i nostri fratelli cristiani e con i frati francescani. Soprattutto cerchiamo di favorire l’incontro tra i giovani di entrambe le comunità, con gli scout per esempio. Educarli alla pace. Ora questo è diventato più difficile. E questo è un guaio perché espone i nostri giovani alle sirene del radicalismo, che gli arrivano attraverso i sermoni di incitazione all’odio provenienti, attraverso i telefonini, da qualche altro paese. Bisogna anche considerare che ci sono molte famiglie betlemite che hanno parenti residenti a Gaza».

«Tutti gli occhi sono puntati, come è giusto, su Gaza, e ora sul Libano, ma la situazione in Cisgiordania, e a Betlemme, è tragica, e richiede molto aiuto» gli fa eco il cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini.

da Betlemme
Roberto Cetera