«Vogliamo protezione internazionale in un posto sicuro per i rifugiati e i richiedenti asilo». Ogni mattina, dal 25 settembre scorso, sventolano, tra la polvere del deserto del Sahara, decine di lenzuoli con questo appello. Sono i rifugiati del centro umanitario dell’Unhcr, a quindici chilometri dalla città di Agadez, nel cuore del Niger, che, ogni giorno, sfidano il caldo, la polvere, la disperazione, per fare appello al mondo, tramite una protesta pacifica, perché non siano più invisibili. Nel centro sono ospitate circa 1.500 persone, di cui alcune si trovano bloccate lì dal 2017. «Rifugiati nel deserto senza soluzioni», recitano alcune scritte sui lenzuoli tenuti dalle mani innocenti dei bambini che vivono lì (circa 500, tra cui molti neonati). In condizioni di difficoltà e sofferenza sono anche le tante donne, alcune incinte.
«Chiediamo — spiegano gli organizzatori della protesta in un appello raccolto dall’organizzazione Refugees in Lybia — a tutte le istituzioni internazionali e agli organismi per i diritti umani di trovare soluzioni durature e una vita dignitosa, e chiediamo anche ai Paesi terzi di garantire il futuro dei nostri bambini e delle nostre donne». Salvateci — continuano — «da questo inferno in cui viviamo dal 2017 ad oggi». Un sos per la sopravvivenza e la dignità, dunque, che arriva da chi ha già alle spalle storie incredibilmente dure da vivere. Come Amira, una sudanese di 29 anni, che è arrivata nel centro umanitario, dopo lunghe peripezie. «Mio marito è morto e io ho sei figli senza cure, senza istruzione, senza futuro». Originaria della regione del Darfur, dopo aver subito indicibili violenze, aveva deciso di scappare in un posto più sicuro e così era arrivata in Libia nel 2018. Lì però, insieme ai suoi figli e a suo marito, era stata venduta a una gang di trafficanti, che le aveva chiesto un riscatto di 100.000 dollari, impossibile da pagare dalle famiglie di origine. «Dopodiché, ci hanno picchiato ogni giorno, ogni mattina, in modo che pagassimo loro il riscatto», spiega la donna. Sono stati momenti di orrore, ai quali era riuscita finalmente a sfuggire, decidendo poi di spostarsi verso il Niger, dove, però, la situazione non è migliorata. Dopo la morte del marito, l’anno scorso, oggi continua a vivere nel centro umanitario nel deserto, senza orizzonti, senza istruzione per i suoi figli. Come lei, anche gli altri del centro — in maggioranza sudanesi — non hanno mezzi per spostarsi di nuovo. «Il duro ambiente desertico, la mancanza di speranza ci hanno causato disturbi psicologici, non vogliamo restare qui», lamentano i rifugiati.
La loro condizione riflette quella di tanti altri uomini e donne che, si muovono da un Paese all’altro dell’Africa, sfollati a seguito di guerre, violenza, povertà, e non hanno prospettive di vita possibili. Chi li ascolta? Chi li potrà soccorrere? Chi darà loro un futuro? Per cercare di intercettare le situazioni più critiche, è attiva da alcuni anni un’hotline dedicata dell’organizzazione Refugees in Lybia, che cerca poi di amplificare il grido dei migranti, tramite il network Alliance for Refugees in Lybia. Chiamano e scrivono da diversi luoghi, non solo dal Niger, Paese governato da una giunta militare, dove il coordinamento con le organizzazioni umanitarie che supportano i rifugiati diventa sempre più difficoltoso. Putroppo, infatti, continuano a essere numerose le emergenze: emergenze di esseri umani che chiedono solo di essere trattati come tali. Dietro alle foto e ai messaggi inviati con scarsa connessione, alle parole gridate in un telefono scadente, ci sono persone vere, che chiedono di non restare invisibili ai confini del mondo.
«La domanda finale— si legge sui lenzuoli della pacifica protesta dei rifugiati in Niger — rimane: vivremo la vita che desideriamo?». (beatrice guarrera)