(s)Punti di vista
Comunicare da cristiani
Pubblichiamo l’intervento tenuto dal direttore de «L’Osservatore Romano» all’incontro “Il cantiere di Assisi: dalle 5W alle 5M2” organizzato dall’Unione cattolica stampa italiana dal 18 al 20 ottobre scorsi.
Partirei dal titolo di uno dei film più belli e famosi della storia del cinema, Quarto potere, di Orson Welles, del 1941. Il titolo originale era Citizen Kane, cittadino Kane, e la “traduzione” fa riferimento alla nota tripartizione dei poteri di Montesquieu per cui le funzioni dello Stato si diversificano nel potere legislativo, il Parlamento, quello esecutivo, il Governo, e giudiziario, la magistratura. Oltre a questi storici tre poteri ce ne sarebbe un altro, il quarto, che è quello esercitato da noi giornalisti, il potere della stampa. Non a caso 35 anni dopo Sidney Lumet dirige Network sulla televisione, che, coerentemente, viene intitolato in Italia, Quinto potere. Le due “molto libere” traduzioni segnalano l'essenza del problema che si trova al cuore della comunicazione: il fatto che la funzione svolta dai mass media, da tutti e dagli stessi mass media è considerata come l'esercizio di un potere. Ma questo è un travisamento, una deviazione, perché il nostro ruolo non è di potere ma di servizio. Per un cattolico questo vale ancora di più: è grande l’insistenza con cui Gesù nel Vangelo ritorna su questo punto per cui “chi vuol essere il primo si metta a servizio degli altri”. Noi giornalisti cattolici non dovremmo dimenticare questo: ci sono due logiche con cui si sta al mondo, quella del potere e quella del servizio. O serviamo gli altri o ci serviamo degli altri. O serviamo la Chiesa o ci serviamo della Chiesa. La logica del potere, lo sappiamo, invece di liberarci ci asservisce, ci fa diventare schiavi. C’è questo romanzo, a me molto caro, Il Signore degli Anelli, che lo esprime efficacemente: tutti vogliono possedere l’anello e finiscono per essere posseduti dall’anello. Il potere fa questo effetto. Il potere è miraggio. A volte leggo o vedo alcuni colleghi giornalisti che quando si occupano della cronaca politica si pongono come interlocutori dei rappresentanti degli altri poteri con l’atteggiamento del “fate adesso i conti con noi”, dettando le condizioni, per esempio al potere politico. Forse è il motivo per cui la gente si disamora rispetto alla stampa e alla Tv, mi riferisco in particolare ai talk-show politici, perché vede spettacoli (molto “spettacolari”, “clamorosi”) chiusi nell’autoreferenzialità, in cui vede i giornalisti che parlano ad altri giornalisti, esercitando una funzione di potere, da “iniziati”, non di servizio. Invece il punto è che forse ci dovremmo chiedere, ogni volta che iniziamo il nostro lavoro: “Noi vogliamo bene a questa gente?” e per “gente” dico sia le persone di cui parliamo, sia quelle a cui parliamo. La domanda da porre a noi stessi dovrebbe essere questa.
Il primo editoriale che scrissi da direttore de «L’Osservatore Romano» s’intitolava “Con gli occhi del forestiero”. Nulla a che fare con le storie dei migranti, come potrebbe sembrare. Aveva invece a che fare con Gesù. Io mi chiedevo apertamente: “Cosa deve fare il direttore de «L’Osservatore Romano?». Ero lì, appena arrivato con timore e tremore di fronte a questa grande sfida. In questo smarrimento ho preso a modello Gesù, mi sono messo a pensare a Lui e mi è venuto in mente l’episodio di Emmaus. Due discepoli camminano lungo la strada e parlano, parlano del fatto del giorno: hanno crocifisso Gesù di Nazareth. Sono entrambi molto agitati per questo, sono molto “dentro la notizia”. Ed ecco che Gesù risorto entra in questa storia e fa finta di non conoscerla. Quelli gli rispondono: “Solo tu sei così forestiero da non sapere nulla?” Come a dire: “Non li leggi i giornali?”. Gesù non si scompone ed entra in conversazione con loro, con questi due che sanno tutto della cronaca ma ne hanno smarrito il senso. E il senso glielo spiega proprio il forestiero. Penso che noi dovremmo fare esattamente così: entrare nelle conversazioni del mondo, “stare sul pezzo”, ma guardarle sia da dentro e da fuori. Essere autenticamente cristiani, cioè “anfibi”, vivere nel mondo senza essere del mondo. Stare nelle strade polverose della storia ma con un occhio forestiero, trascendente, l'occhio del Cielo. Solo così possiamo dare senso al racconto. Il forestiero trova il senso profondo a quella storia perché osserva la realtà con uno sguardo diverso, pieno d’amore. Infatti non è vero che l’amore acceca, ma anzi fa vedere meglio le cose, le illumina dal di dentro.
A proposito di “osservare”: «L’Osservatore Romano» si chiama così perché osserva e lo fa da Roma. Il nostro giornale è pubblicato in otto lingue, infatti non è italiano ma romano, cioè cattolico, cioè universale. Scriviamo ogni giorno in italiano ma il nostro orizzonte è il mondo.
Torniamo al Vangelo e osserviamo come Gesù, entrando nel mondo, oltre a osservare, vedere negli occhi gli occhi degli uomini, non ha fatto altro che raccontare storie. Ha parlato per parabole ed è quel che «L’Osservatore Romano» vuol fare: raccontare storie in cui il lettore si identifichi. Il taglio narrativo è quello che i media vaticani hanno scelto di prediligere direi da sempre e in particolare in questi ultimi anni segnati da Papa Francesco, un Pontefice molto “narrativo”. Raccontare quindi, senza, come si suol dire, “pontificare”, che è un vizio di buona parte della comunicazione contemporanea, fuori e dentro la Rete. Proprio i cattolici dovrebbero lasciar fare ad altri i pontefici, a quelli che pretendono di insegnare tutto a tutti.
Ultimamente quando mi invitano a parlare noto che questi incontri nascono da una preoccupazione riassumibile nella frase: “stiamo perdendo l’umanità”. C’è del vero, nel senso che l’umanità non è mai statica bensì dinamica, cioè è un organismo vivente e non un oggetto, una “cosa” che si acquisisce una volta per sempre. Una mucca, la sua “bovinità” non la perderà mai, una persona invece la sua umanità può perderla in ogni istante, basta che giri la testa dall’altra parte mentre c’è un uomo che soffre. Certo, la può riconquistare ma anche continuare a perderla ogni giorno, ogni momento, ogni istante è “decisivo”. Allora dovremmo stare lì a fare domande, se per caso stiamo incamminati verso una maggiore o minore misura di umanità. E la maggiore misura di umanità per noi cattolici è Cristo, il Dio fatto uomo. Dovremmo stare lì a fare domande, a seminare dubbi, a tener sveglie le coscienze. Questo è quel che un buon giornalista cattolico dovrebbe fare: seminare dubbi, ovvero domande. Gesù nel Vangelo non dà risposte, ma pone domande. E la prima domanda è appunto: “Cos’è l’uomo?”
Mi piace molto la vostra provocazione: dalle 5W alle 5M. Queste W che si capovolgono diventando le M di “more” ricordano Gesù che a Emmaus, e in tutto il Vangelo, non fa altro che questo: rovescia la prospettiva, fa vedere le cose da una prospettiva differente.
“More”, il cristiano è chiamato a essere più che umano, nel senso di totalmente umano, pienamente umano. Mi avete chiamato per affrontare il tema di “più” linguaggi, approfondendo una delle categorie dei “More” che avete individuato. Mi viene da pensare che ogni uomo parla una lingua diversa, che in fondo anche due italiani parlano lingue differenti. Uno dei più grandi filosofi del linguaggio, Ludwig Wittgenstein diceva: “Se un leone parlasse, noi non lo capiremmo”. A voler significare che la lingua non è solo uno strumento comunicativo ma ha a che fare con l’esperienza della vita. E poi c’è il racconto, qualcosa di veramente, squisitamente umano. Fin dalla preistoria, attorno al fuoco, non solo mangiando ma conversando, raccontando storie. Chiediamoci: a che serve perdere tutto quel tempo per raccontare una storia? È uno spreco, un lusso che non si spiega se fossimo solo animali costretti dentro la catena dell'evoluzione e degli istinti. Siamo animali ma animali liberi. E anche oggi è così: non abbiamo mai tempo eppure se incontri qualcuno, ti fermi a conversare con lui e gli racconti qualcosa di te. E accade sempre che nel racconto comprendi meglio qualcosa di te stesso, di quella vicenda che avevi vissuto. Solo gli uomini fanno tutto questo: s’incontrano, si parlano, raccontano, comprendono. E prima ancora, la prima cosa che avviene durante un incontro, un vero incontro, è ascoltare. Tutto questo ci permette di non cadere nel cinismo, una parola che viene dal greco kinos, “cane”. Come si fa a non diventare cinici? Mantenendo lo stupore. Il Papa ce lo dice continuamente. Lo stupore non toglie il dramma dalla vita, ma è, di fronte alla realtà, uno sguardo di gratitudine. Robinson Crusoe, nel romanzo, dopo il naufragio fa un inventario delle cose che gli restano. Come dice Chesterton, quell’inventario è la poesia più bella che si possa immaginare. Qui siamo nella città di san Francesco, l’autore di quel meraviglioso inventario stilato prima di morire che è il Cantico delle Creature: l’inventario di tutto l’esistente, cantato con gratitudine. Come ricorda il Papa ci vuole coraggio ad essere felici. Felice non è solo “contento”, felice in latino vuol dire anche fecondo. E noi cattolici dobbiamo essere fecondi, generativi. Nel mondo di oggi più di ieri è importante seminare. Noi invece siamo fissati della prestazione, dei risultati. Dovremmo invece abbandonare questa logica per assumere quella del seme. Chi insegna a scuola lo sa: pur non vedendo i risultati il compito è quello di seminare. Un gesto che si può fare solo con fiducia.
Infine: più linguaggi, sì, dobbiamo far parlare tutti, perché tutti hanno una voce, anche se ad alcune voci nessuno vuole dare ascolto. E allora la prospettiva va rovesciata: il giornalista non è colui che parla, ma colui che ascolta. Che ascolta e quindi, dopo, parla.
Due esperienze tratte da questi anni de «L’Osservatore Romano» possono rivelarsi interessanti. Abbiamo dato vita ad una rubrica mensile, “#CantiereGiovani” che funziona così: non parlare “dei” giovani, che non sono un argomento o una categoria sociologica ma far parlare i giovani, ascoltarli. E poi c’è il mensile «L’Osservatore di Strada». Stessa logica con i senzatetto che non sono l’oggetto ma il soggetto della comunicazione. Abbiamo dato vita ad una redazione composta dai poveri di Roma: tra loro infatti c’è chi sa scrivere, disegnare, fotografare... Noi diamo loro una seconda possibilità, quella che la vita spesso sembra non offrire. Se ci pensiamo è Gesù nel Vangelo che ci dice proprio questo: avete una seconda possibilità, ma anche una terza, e così via... la possibilità di riscatto è per tutti. Gesù quando è risorto è tornato dagli Apostoli, da chi li aveva tradito, rinnegato, abbandonato... e tende loro la mano, crede in loro e gli offre una seconda possibilità. In un mondo spietato e cinico, che inchioda tutti (gli altri) ai sensi di colpa, questa parola di speranza e misericordia suona controcorrente ma anche come l'unica parola di cui il cuore degli uomini ha davvero bisogno.
Finisco con una citazione da educatore visto che sono un educatore prestato al giornalismo. San Giovanni Bosco diceva: se tu ai ragazzi dai poco, non ti daranno niente, se tu dai molto ti daranno qualche cosa, se tu darai loro tutto, ti daranno più di tutto. È questa la fiducia che spinge il seminatore a uscire tutti i giorni, un po’ come fanno i giornali che escono tutti i giorni, per seminare speranza. È questa la sfida per un giornalismo da cattolici, cioè more human, da esseri umani, pienamente umani.
di Andrea Monda