L’umiltà come compagna
L’umiltà come compagna della carità: questo il tratto essenziale del sacerdote Gaetano Clausellas e del fedele laico Antonio Tort, martiri in Spagna nel 1936 e beatificati stamani, sabato 23 novembre, nella basilica della Sagrada Família a Barcellona. Il rito è stato presieduto, in rappresentanza di Papa Francesco, dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi. Pubblichiamo ampi stralci della sua omelia.
In questa Messa, la parola di Dio ha mostrato una moltitudine immensa che grida: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7, 9-10). Fra loro noi oggi riconosciamo presenti anche i due martiri che la Chiesa ha appena dichiarato beati: il sacerdote Gaetano Clausellas e il fedele laico Antonio Tort.
Nel suo decreto, la loro personale vicenda il Papa l’ha descritta con l’immagine evangelica del buon Samaritano, nel quale riconosciamo lo stesso Gesù. Come lui, anche i due nuovi Beati hanno mostrato grande carità verso chi è più povero e nel bisogno. Così ha fatto il beato Gaetano Clausellas, nel quale l’umiltà era la compagna della sua carità; così ha fatto pure il beato Antonio Tort, il quale amava prendersi cura dei malati di tubercolosi e delle persone anziane. A questa testimonianza della carità l’uno e l’altro rimasero fedeli, anche quando ciò espose al pericolo la loro stessa vita.
Mentre era condotto al luogo dell’uccisione, il beato Gaetano pregava con le parole del Te Deum, l’antico inno che si chiude con le parole: «In te, Signore, è la mia speranza». Del beato Antonio i testimoni dicono che per proteggere l’Eucaristia dalla profanazione, tolse la pisside dalle mani di un miliziano e distribuì il pane consacrato ai presenti. Offrendolo al suo figlio più piccolo di cinque anni disse: «Ti tolgono il tuo papà terreno e io ti affido al Padre del cielo».
Queste testimonianze di martirio, così intense e pure commoventi, oggi la Chiesa ci propone di comprenderle alla luce della parola di Gesù, che troviamo nel Vangelo secondo Giovanni (12, 24-26). Il racconto che è da collocarsi nel momento dell’ultima Pasqua del Signore, quando annuncia ai discepoli il compimento della sua «ora»: un momento che è il punto culminante della sua storia terrena e che la sua glorificazione e, prima ancora, la sua morte di croce.
La prima immagine del testo evangelico avverte della fecondità di questo evento: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Come è possibile? All’apparenza si tratta, infatti, di un momento davvero tragico: Gesù è tradito, abbandonato, crocifisso. All’interno di questo dramma, però, cresce una vita. Quale la condizione? Non considerare la propria vita come un possesso da tenere con avarizia, come un bene unico da difendere a tutti i costi, ma, al contrario, aprendola all’incontro, alla misericordia, alla cura dell’altro e questo non soltanto per solidarietà e filantropia, che pure sono gesti importanti e meritevoli di stima, ma imitando Gesù.
Egli vuole dirci che la nostra vita — quella di noi suoi discepoli anzitutto, ma anche quella di ogni uomo — ha fecondità solo nel dono, nell’amore.
Nella pagina del Vangelo che è stato proclamato c’è una parola che amerei restasse parola-ricordo di questa bella celebrazione, ricca di gioia e di speranza. Dice Gesù: «Se uno mi vuole servire, mi segua» (v. 26). Sant’Agostino commentava dicendo che seguire Gesù vuol dire imitarlo; aggiungeva, però, che Gesù vuole che le vie da seguire siano le sue e non quelle che ci tracciamo da noi stessi. Scendendo al concreto aggiungeva: «Così, ad esempio, se uno porge il pane a chi ha fame, deve farlo animato da misericordia, non per vanità… Chi compie per Cristo, non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona egli è servo di Cristo, specie se giungerà fino a quella grande opera di carità che consiste nell’offrire la propria vita per i fratelli, che equivale a offrirla per Cristo» (cfr. In Jo. evang. tractatus 51, 12: pl 35, 1768). E qui, ritroviamo i nostri beati martiri. Cosa è stato, infatti, il loro martirio, se non un seguire Cristo? Non hanno seguito se stessi, ma Cristo! La testimonianza che giunge da loro è questa: seguire Cristo!
È, in fin dei conti, quello che hanno fatto i nostri due beati: hanno lasciato a Dio la scelta della loro strada. Certo, una scelta di vita cristiana l’avevano già fatta ambedue rispondendo ad una vocazione: uno scegliendo il ministero sacerdotale e l’altro la missione di marito e di padre. Ambedue, poi, avevano dato a tutto questo il calore della carità verso il prossimo. Non poteva bastare?
Ecco, seguendo Gesù i due Beati hanno capito che le loro scelte di vita non bastavano e che Dio aggiunge sempre una vocazione nella vocazione; hanno capito che il loro seguire Gesù li conduceva dove non avrebbero mai immaginato. Però hanno accettato di essere condannati come lui per il dono agli altri della propria vita. È questo che fa il martire: l’imitazione di Cristo, anche quando il seguirlo porta alla scelta di accettare la morte.