Mentre si approssima l’inizio del Giubileo che comincerà alla Vigilia di Natale, celebriamo oggi la Giornata Pro-Orantibus: uomini e donne, in particolare donne, che vivono la loro sequela Christi nella vita monastica e contemplativa nei vari monasteri dispersi in tutto il mondo. Monaci e monache sono chiamati ad essere nella Chiesa e per l’umanità sentinelle di speranza.
Alla domanda del profeta: «Sentinella quanto resta della notte?» i monaci e le monche, con la loro vita discreta, osano rispondere con appassionata convinzione: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21, 11-12).
Nella stabilità e nella clausura del monastero le monache e i monaci sono chiamati ad essere pellegrini e profeti di speranza. Nella solennità dell’Ascensione Papa Francesco ha promulgato la Bolla di indizione dell’Anno Santo dal titolo: Spes non confudit “La speranza non delude”. Dopo aver citato l’apostolo Paolo (Rm 5, 1) Papa Francesco così prosegue: «Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti, non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese particolari. Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, “porta” di salvezza (cfr Gv 10, 7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale “nostra speranza” (1Tm 1, 1)».
Certamente tra i pellegrini di speranza evocati e invocati da Papa Francesco vanno annoverati anche i monaci e le monache che, per la loro stessa vocazione claustrale, sono chiamati ad essere non solo compagni di cammino per i loro fratelli e sorelle in umanità che, talora, arrancano sui sentieri spesso faticosi della speranza, ma anche segno di come sia possibile credere nell’impossibile. In questo tempo in cui la notte sembra interminabile per le guerre, le povertà e le ingiustizie i contemplativi abitano la notte preparando con l’amore e nella preghiera l’aurora di una speranza piccola, ma capace di illuminare e scaldare i cuori. La dedizione dei monaci e delle monache, di tutti i tempi e di tutte le tradizioni, alla veglia notturna è un segno forte di questo ministero di “vigilanti”. La veglia testimonia, in senso concreto, che il tempo, nonostante tutte le sue pesantezze e oscurità, è ormai permeabile all’eternità. Gli angeli nelle lingue semitiche sono detti “vigilanti”, in questo senso le monache e i monaci ricevono l’abito angelico che non va inteso semplicemente nel senso della purezza morale, ma nel senso dell’habitus della Vigilanza. Sono loro che, simbolicamente, fanno proprio e consumano tutto il sonno spirituale del mondo perché ogni cuore umano sia illuminato dalla luce pasquale di Cristo Risorto che dissipa le tenebre dei cuori.
Come ricorda Benedetto nella sua Regola ai monaci: «L’officina in cui assiduamente compiremo tutto questo lavoro, è l’ambito del monastero, con la necessaria stabilità nella famiglia monastica» (RB 4, 78). Con la pratica della stabilità e della clausura i monaci e le monache abbracciano una vita in cui il limite e la limitazione sono scelti non per isolarsi in un mondo ideale, ma per assumere coraggiosamente il reale. La perseveranza nella vita claustrale è un esercizio interiore per riconoscersi serenamente limitati e poveri, fino a riconciliarci con il proprio limite e diventare così un luogo di riconciliazione e di salvezza per i propri fratelli e sorelle in umanità che ogni giorno devono convivere con i loro limiti, le loro fatiche, i loro peccati senza <disperare mai della misericordia di Dio» (RB 4, 74).
Un testo di un monaco sofferto e profetico come Thomas Merton può ancora illuminare: «Invece di vivere la vita monastica nella sua purezza e semplicità, tendiamo spesso a complicarla e guastarla con le nostre prospettive limitate e con i nostri desideri troppo umani. Attribuiamo così un’importanza eccessiva ad alcuni aspetti della vita monastica, spezzandone così l’equilibrio; oppure cadiamo in quella miopia spirituale che non coglie se non i dettagli, perdendo di vista la grande unità organica in cui siamo chiamati a vivere» (Il monaco, La Locusta, Vicenza 1964, p. 7).
Nel nostro tempo, e alla luce dell’incremento di comprensione del Vangelo che è Cristo Gesù, l’estasi che siamo chiamati a desiderare e a rendere possibile è quella di “uscire da sé” per lasciarsi cadere come seme e come lievito del Regno che viene proprio nello spazio e nel tempo di tutti che diventa, per la scelta di consacrazione nella vita monastica, tempo e spazio per tutti.
La conclusione della Bolla di indizione del Giubileo diventa per i contemplativi un gioioso compito di profezia escatologica al cuore della Chiesa e nelle remote periferie antropologiche in cui si dibatte l’umanità: «Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: “Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore” (Sal 27, 14). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri» (Spes non condundit, 25).
di Michael Davide Semeraro
Benedettino, priore nell’abbazia di Novalesa