L’intervista, finora inedita in italiano, al cardinale Joseph Ratzinger, al tempo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, realizzata nel 2003 da Albert Scharf per l’emittente bavarese «Bayerischer Rundfunk», è contenuta nel volume In dialogo con il proprio tempo, edito dalla Libreria Editrice Vaticana (Lev), in libreria dal 25 novembre. Suddiviso in tre tomi per un totale di 1688 pagine, fa parte dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, in corso di pubblicazione per i tipi della Lev. Il volume raccoglie tutti i libri-intervista firmati dal cardinale Ratzinger-Benedetto XVI così come tutte le sue interviste ai mezzi di comunicazione, da quando era teologo e docente negli anni Sessanta fino al papato. Curato da Pietro Luca Azzaro e don Lorenzo Cappelletti, il libro verrà presentato il 21 novembre alla Lumsa di Roma. Dopo i saluti del rettore Francesco Bonini, di padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, e di Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale della Lev, interverranno monsignor Georg Gäswein, nunzio apostolico in Lituania, Estonia e Lettonia, già Segretario particolare di Benedetto XVI, e Gian Guido Vecchi, vaticanista del «Corriere della Sera». Modera Pietro Luca Azzaro, curatore dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Pubblichiamo un ampio stralcio dell’intervista.
Per secoli, la Chiesa si è trovata di continuo in situazioni in cui apparentemente Dio era morto. Con lo sviluppo della tecnologia e la trasformazione economicistica del mondo a esso collegata, oggi questo problema ha assunto un’altra dimensione? Nell’introduzione della nuova edizione del Suo libro sicuramente più famoso e più diffuso, «Introduzione al cristianesimo», del 1968 — che nel 2000 ha ripubblicato praticamente invariato, Lei indica due anni-chia ve dal momento della pubblicazione: il 1968 e il 1989. Afferma che questo problema del rischio del cristianesimo ha assunto un’altra dimensione. Dio — aggiungo io — non è morto, ma semplicemente divenuto superfluo e inutile. Si tratta di un nuovo aspetto del nostro tempo?
Direi di sì. Il grande pericolo è che in realtà sembra che non abbiamo più bisogno, come già affermava Laplace, dell’ipotesi “Dio”. La nascita del mondo la potremmo spiegare diversamente. E soprattutto saremmo capaci di affrontare anche la nostra vita diversamente. Dio appare così, tuttalpiù, come un ornamento marginale, ma non più come quella forza di cui ogni uomo ha bisogno al centro della sua vita e che realmente può essere ciò che la sostiene e la determina. Ma, come ho appena accennato, ci sono anche altre dimensioni: c’è da un lato la lotta alla sofferenza, al dolore. La medicina ha fatto grandi progressi e tuttavia, naturalmente, non è capace di risolvere il problema di come il singolo possa cancellare il dolore, la sofferenza che lo afferra ad esempio per la perdita di una persona cara. C’è dunque sicuramente anche questa dimensione più profonda, che tutta la capacità tecnica non coglie. Semplicemente c’è un limite a quello di cui siamo capaci. Anche se una volta Auguste Comte disse che un giorno sicuramente saremmo arrivati al punto di poter trattare l’uomo come un oggetto della fisica — certo, oggi la scienza non è ancora giunta così lontano, ma probabilmente ci arriveremo —, vediamo semplicemente che non è vero. Vediamo semplicemente che ci sono anche altri piani, il piano della felicità e il piano della dolorosità. Questi piani, probabilmente, nella vita di ogni uomo, si manifestano più tardi e a fatica, perché in un primo momento si è assai presi da tutto quanto possiamo e vogliamo fare. Ma appunto perché Dio è una realtà, perché l’uomo è fatto in modo tale da aver bisogno di lui, questo sarà sempre di nuovo evidente, anche se in modo più doloroso e più difficile. In questo senso, chi ad esempio pensava che dopo il 1989 la fede sarebbe ritornata, si è illuso. Proprio in Germania, e in particolare nell’ex Ddr, sembra non esserci alcun bisogno della religione, apparentemente si può vivere anche senza. È un’esperienza molto diffusa, che tuttavia non penso alla lunga durerà, appunto perché credo che l’uomo sia fatto secondo una misura molto più ampia. A lungo egli può, per così dire, aiutarsi da sé o dimenticare Dio, considerandolo qualcosa d’irrilevante, che non lo riguarda affatto. Ma le domande originarie e i bisogni originari dell’uomo si riproporranno sempre di nuovo, anche se in forma diversa. In questo senso è importante soprattutto che in quel momento, se crediamo che Cristo ci ha dato la risposta, questo domandare, che è certamente molto presente, non trascuri la Chiesa, cercando risposte in tecniche di autorealizzazione, in arti esoteriche e così via, ma che sia evidente che, sì, «qui c’è uno che vi attende! Vale la pena cercare qui!».
Gli uomini, noi, siamo nel frattempo divenuti capaci di troppe cose? Crediamo ancor più di potere tutto? Detto più prosaicamente, stiamo semplicemente troppo bene per comprendere il bisogno esistenziale che alla fine della sua vita ogni uomo ha? Il benessere è un pericolo per la fede? Viviamo pur sempre in un benessere che mai prima nella storia avevamo avuto. Almeno in Europa, nonostante tutta la miseria e le lamentele.
Sì, naturalmente il benessere può rappresentare una tentazione molto grande. Lo vediamo dovunque apparentemente c’è bisogno solo di servirsi della vita e si suppone ci si possa, per così dire, creare da sé il paradiso in terra. In effetti è molto grande il pericolo che, come dire, ci si stordisca interiormente dimenticando cose più profonde. Questo a sua volta conduce, però, anche a esplosioni di ribrezzo verso se stessi: non è un caso che nel 1968 e nel 1969 non furono i poverissimi a guidare la protesta contro la povertà. No, fu soprattutto nella cerchia di quelli sin troppo benestanti che eruppe la sensazione che in loro, nella società loro, qualcosa non andava. Si trattò dunque di un movimento morale, con cui, diciamo, si voleva creare un contrappeso morale al proprio benessere, dando a intendere che si detestava il benessere o forse lo si detestava veramente. Esistono dunque anche straniamenti da come in realtà l’uomo è inteso dalla religione che possono manifestarsi per così dire sotto forma di pseudonimi. Puntare a uscire da questi straniamenti, dare alle cose il loro giusto nome e soprattutto non lasciarsi intorpidire dalle comodità della vita: questo è certamente il grande compito di quelli che hanno a cuore l’uomo e il suo destino, e ai quali perciò sta a cuore anche Dio.
Diceva prima che allora gli uomini, nel migliore dei casi, si scelgono una propria via per loro sostegno spirituale. Oggi gli uomini cercano queste vie quasi a loro piacimento. In questo la Chiesa risulta addirittura un ostacolo per alcuni? Un filosofo tedesco della Compagnia di Gesù alcuni anni fa scrisse un libro dal titolo «Gesù vive, la Chiesa muore». È questa la prospettiva?
In Europa centrale, negli Stati Uniti e in Australia, dunque nei cosiddetti Paesi occidentali, senza dubbio è diffusa l’impressione che la Chiesa rappresenti oramai solo una mera istituzione, una specie di burocrazia religiosa. In questo senso, viene identificata con altre grandi corporazioni, con altre grandi istituzioni che noi percepiamo come un peso perché si frappongono alla nostra libertà. Per questo molte persone annoverano la Chiesa fra quelle cose che le tengono lontane da Dio invece di condurle a lui. Questa naturalmente, per la Chiesa stessa, dev’essere un’occasione per riflettere come possa accadere che appariamo come una delle grandi centrali burocratiche e che sembri, in opposizione a tutto questo, che si debba cercare ciò che è veramente religioso nell’ambito puramente interiore e spirituale. La colpa, da un lato, è sicuramente della Chiesa: si è troppo organizzata in modo mondano e dunque all'esterno si presenta come una realtà burocratica. Dall’altro lato, si è però anche verificato uno slittamento nella coscienza delle persone. Fatto sta che Dio non è un semplice affare privato. Nella modernità è an data sempre più sviluppandosi l’idea che, da un lato, c’è ciò che è oggettivo, che si manifesta nelle scienze naturali e nella tecnica, e, dall’altro, ciò che è puramente soggettivo, che ognuno s’immagina a modo suo. In realtà, però, l’incontro con Dio avviene proprio perché esso dia luogo a una comunità, la quale si caratterizza, diciamo, per il fatto che in essa non si riceve in dono solo qualche sentimento, ma per il fatto che essa ci apre, che Dio ci apre e ci porta all’incontro gli uni con gli altri. In questo senso, il bisogno di sperimentare la fede anche come comunità, a mio giudizio, si ripresenterà sempre. Per questo oggi vanno formandosi anche tanti piccoli movimenti, gruppi e così via (e anche sètte), nei quali la religione si offre immediatamente agli uomini come esperienza comunitaria. Credo che sia effettivamente importante che ci siano tali gruppi di esperienza della fede, gruppi nei quali la fede ci porta all’incontro gli uni con gli altri. È importante però che questi gruppi non si arenino nella pura discrezionalità. La grandezza della Chiesa è stata proprio che in essa c'è sempre stato posto per tutte le più varie forme di espressione, Ordini e Movimenti i più diversi. Ritengo, dunque, che la Chiesa debba mettere insieme le due cose: da un lato, deve incoraggiare le comunità vive che si formano a partire da esperienze spontanee. Dall’altro, deve rendere possibile l’apertura di queste comunità, affinché s'inseriscano dentro un tutto. In questo modo si creano famiglie in tutto il mondo, si abbattono muri che ci dividevano. È così che la Chiesa diviene forza di pace.
In ciò che si sviluppa in Europa vede dei segni dell’avvento di una simile polifonia della fede?
Direi di sì. Da un lato, come appena accennato, ci sono una serie di movimenti, come ad esempio Comunione e Li berazione, Neocatecumenali e altri, che rappresentano veri spazi di esperienza della fede. Qui le persone s’incontrano direttamente per mezzo di un uomo che, potremmo dire, ha avuto un’esperienza originaria. Le persone che vi si radu nano fanno appunto qualcosa di più che godersi il proprio benessere. Vi ricevono invece una forza spirituale e una missione, uno stimolo a vivere per gli altri. Un altro esempio è Madre Teresa: da questa donna semplice è partito uno stimolo enorme ad abbandonare se stessi, a vivere per gli altri e a voler migliorare il mondo. Dall’altro lato, emerge anche il bisogno che essi non restino, per così dire, corsi d’acqua isolati, ma che tutto confluisca in un’unica grande corrente. Trovo, ad esempio, che le ultime grandi Giornate mondiali della gioventù a Parigi, Roma e Toronto abbiano rappresentato un grande segno a questo riguardo: dei giovani lì, all’improvviso, fanno di nuovo esperienza che è bello credere, che è bene farsi ispirare dalla Chiesa, ricevere il perdono e la presenza viva della fede. In quelle occasioni i giovani hanno capito che devono trovarsi insieme aldilà dei loro singoli movimenti, dei loro singoli, piccoli “clubs” e aldilà dei continenti. Se questo accade, allora i cristiani sono veramente una forza dirompente di bene. Credo, dunque, che ci siano dei segnali incoraggianti in questa direzione, la cui importanza a livello quantitativo non voglio naturalmente sopravvaluta, ma la cui forza spirituale non va neanche sottovalutata.
di Albert Scharf