La fede non è un vestito
Contro il «rischio di trasformare la fede in un vestito da indossare solo la domenica» ha messo in guardia il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin celebrando ieri, la messa domenicale con la comunità cattolica romena di rito latino, nella basilica romana dedicata ai Santi Vitale, Valeria, Gervasio e Protasio.
Incastonata accanto al Palazzo delle Esposizioni su via Nazionale, comunemente conosciuta come basilica di San Vitale, il rito vi si è tenuto in occasione dei 25 anni di cura pastorale ininterrotta dei fedeli emigrati dalla Romania a Roma.
Nell’omelia Parolin ha sottolineato l’importanza del fare memoria di un passato in cui la fede è stata il collante di una comunità frammentata, lontana dalla casa, dalla famiglia, dalle persone care. E ha rassicurato: «I tormenti nella società e gli sconvolgimenti della storia non devono allora turbare il Regno di Dio che è in noi».
Il cardinale ha rievocato le vicissitudini della comunità romena che nel corso degli anni si è riunita in varie chiese di Roma: dalla basilica dei Santi Dodici Apostoli a quella di Santa Croce al Flaminio fino alla chiesa di Santa Maria in Portico in Campitelli, per approdare, circa 16 anni fa, a San Vitale. Un peregrinare che, ha detto Parolin, mostra anche una maturazione della comunità, mentre nel frattempo sono sorte altre nuove comunità attorno alla capitale.
Un peregrinare che ricorda i tempi nei quali la cristianità era ancora non divisa, ha precisato il segretario di Stato, i tempi dei primi concili ecumenici, quelli nei quali la realtà del martirio degli inizi della Chiesa era ancora molto presente nel vivere dei cristiani. «Vedo in questa celebrazione una felice coincidenza che può ispirare anche noi a vivere più profondamente la nostra fede», ha osservato.
In un Paese ancora ignoto, celebrare i sacramenti, condividere difficoltà, ancorarsi alla fede comune può costituire un ristoro notevole.
C’è una continuità che si riscopre ogni giorno in cui si fa memoria di essere stati sostenuti, incoraggiati, consolati. Ed è qualcosa di «imprescindibile per ritrovare la propria identità». Oggi, invece, si corre il «rischio di trasformare la fede in un vestito da indossare solo la domenica», ha lamentato Parolin. In un’epoca che molti giudicano “fluida”, è ancora più urgente guardare a dei pilastri che dicono agli uomini da dove vengono e quali sono le realtà che davvero contano, «perché restano, rimangono salde, di fronte al passare delle mode e dei tempi».
Nell’ultima domenica prima della solennità di Cristo Re dell’Universo, la liturgia propone una riflessione proprio sulla fine dei tempi. E lo fa anche con parole urtanti le quali, tuttavia, non devono spaventare, ha incoraggiato il cardinale. Basta guardare al Signore che resta e tutto in Lui converge. «Con un piccolo gioco di parole, potremmo dire che la fine di tutto svela Colui che, in verità, è il fine di tutto». Ritrovarsi a richiamare le proprie radici e a custodirle vuol dire proprio tenere fisso davanti a sé il fine. Da qui, l’invito nell’hic et nunc che sembra manifestare poche luci. «I tormenti nella società e gli sconvolgimenti della storia non devono allora turbare il Regno di Dio che è in noi, che è Dio stesso, perché la nostra anima è già radicata e fondata nel Suo amore, ancorata in Lui che è la roccia, con una speranza, la Sua, che è già certezza: non sono gli elementi del cosmo o del caso che governano il mondo e l’uomo, ma un Dio personale». E nell’imminenza del Giubileo della speranza, l’appello finale è stato a vivere le tribolazioni senza far affievolire la grandezza dell’attesa.
di Antonella Palermo